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Didaskàlikos

XXVII. Il Sommo Bene e la felicità

1. Procedendo per ordine, bisogna ora parlare, per sommi capi, delle cose dette da Platone riguardo all'etica. Egli riteneva che il bene più pregevole e più grande non fosse facile da trovare e, trovatolo, non fosse prudente offrirlo a tutti. Per certo pochissimi e scelti discepoli fece partecipi della sua lezione sul Bene. Peraltro, esaminando accuratamente le sue opere, si può vedere che Platone ha posto il nostro bene nella scienza e nella contemplazione del primo Bene, che può essere chiamato Dio e primo intelletto.

2. Egli pensava che tutte le cose chiamate buone presso gli uomini avessero questo nome per il loro partecipare, in certo qual modo, al primo e più pregevole bene, allo stesso modo in cui le cose dolci e calde hanno tale nome per il loro partecipare al primo dolce e al primo caldo. Solo il nostro intelletto e la nostra ragione possono giungere ad assimilarsi al bene; perciò anche il nostro bene è bello, nobile, divino, amabile, proporzionato e denominato con nomi degni del divino. Di quelli che i più chiamano beni, per esempio la salute, la bellezza, la forza, la ricchezza e le altre cose a queste affini, nessuno è in sé un bene, se non usato virtuosamente; infatti, separati dalla virtù, sono soltanto al livello della materia e divengono dei mali per quelli che li usano sconsideratamente; qualche volta Platone li chiama anche beni mortali.

3. Egli riteneva che la felicità non stesse nei beni umani, ma in quelli divini e immortali; e così affermava che le anime veramente amanti della sapienza sono piene di grandi e meravigliosi beni e che, dopo lo scioglimento dal corpo, divengono commensali degli dei e a loro si accompagnano e contemplano la pianura della verità, poiché anche nella vita desideravano ardentemente di conoscerla e preferivano la sua ricerca; grazie ad essa purificavano e ravvivavano l'occhio dell'anima, rovinato ed accecato, tale però da dover essere salvato più di migliaia d'occhi, ed erano capaci di aspirare alla natura di tutto ciò che è proprio della ragione.

4. Platone paragona inoltre gli uomini senza senno a coloro che abitano sotto terra, i quali non hanno mai veduto la luce splendente, ma vedono le ombre scure dei corpi che sono presso di noi, e credono fermamente di cogliere le cose reali. E come costoro, se trovano il cammino che sale dalle tenebre e giungono alla prima luce, a ragione disprezzano le cose che prima si mostravano loro e molto più se stessi per essersi lasciati ingannare, così certo anche quelli che passano dalle tenebre della vita alle cose veramente divine e belle, sdegnano ciò che precedentemente era stato oggetto della loro ammirazione ed hanno un più forte desiderio di contemplare queste cose divine. In accordo con queste cose è bene l'affermare che solo ciò che è moralmente buono è bene e che la virtù è bastante per la felicità. Che poi il bene e il moralmente buono stiano nella conoscenza della prima causa, è dimostrato in intere opere, mentre delle cose buone per partecipazione così è detto nel primo libro delle Leggi: "Di due tipi sono i beni, gli uni umani, gli altri divini", etc. Se qualcosa, che è separato e non partecipa dell'essenza del primo Bene, è chiamato dagli stolti bene, Platone dice nell'Eutidemo che ciò, per chi lo possiede, è un male assai grande.

5. Bisogna capire che il fatto che Platone riteneva che le virtù devono essere scelte per sé stesse, consegue al fatto che egli riteneva che solo ciò che è moralmente buono è bene; ciò è dimostrato da Platone nella maggior parte delle opere e soprattutto nell'intera Repubblica. Colui che possiede la scienza che abbiamo detto è il più fortunato e felice, non tuttavia per gli onori che, essendo tale, riceverà, né per le ricompense, ma anche se dovesse restare ignoto a tutti gli uomini e gli capitassero quelli che sono detti mali, per esempio la perdita di ogni diritto, l'esilio, la morte. Invece chi, senza avere questa scienza, possiede tutti quelli che sono ritenuti beni, come la ricchezza, la potenza regale, la salute del corpo, la vigoria, la bellezza, in nulla è più felice.

 


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