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Piccoli orizzonti significativi

La sfida introversa alla mondializzazione

di Eduardo Zarelli

Sono tre le grandi rivoluzioni che hanno segnato indelebilmente la storia conosciuta dell�umanità.
Quella del neolitico, con l'introduzione dell'agricoltura.
Quella del 1700, con l'introduzione della produzione industriale.
Quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal precipitato della biotecnologia e delle applicazioni dell'informatica, che qui denomineremo grande accelerazione.
Ognuna di queste rivoluzioni è contemporaneamente economica, tecnica, sociale e culturale. Ognuna segna un diverso e più accentuato tentativo dell'umanità, o di parte di essa, di dominare la natura con la hýbris (tracotanza) che alimenta l'inesausto struggimento nichilistico ad oltrepassare i limiti imposti dalla realtà. Tale idea di dominio è inconcepibile prima del neolitico; è inibita nelle società agricole dall'evidente supremazia della natura stessa, a malapena e quasi casualmente controllabile con le tecnologie pre-industriali. È sostenuta e interpretata con forza nell'era delle macchine. Giunge a completa maturazione con la grande accelerazione.

Agli occhi della saggezza atemporale che fu di ogni metafisica cosmocentrica, l'abbandono dell'essere fa tutt'uno con lo svolgimento quantitativo del divenire. Nell'orologio del Pianeta, la storia della civiltà umana equivale ad una manciata di minuti. Il tempo della grande accelerazione ad appena pochi secondi.

Il distacco fra umanità e natura è un processo storico. Le società di raccoglitori/cacciatori vivevano in simbiosi con il luogo in cui abitavano, o con i territori in cui si spostavano. L'avvento dell'agricoltura e della sedentarietà comporta una rottura di tale simbiosi e rappresenta il primo tentativo umano di inserirsi nei cicli naturali per sfruttarli a proprio vantaggio, invece di limitarsi ad adeguarsi ad essi. Fino all'era delle macchine, tuttavia, questo inserimento non provoca significative modificazioni ecologiche. Incontestabilmente, è ancora la natura a indicare la strada della specie umana. L'introduzione della macchina e della produzione seriale innesca una rottura dell'equilibrio e produce una reazione a catena, che porta, in due secoli, fino all'ingegneria genetica, ossia la pretesa umana di dominare i processi naturali fin nei loro più intimi recessi. Si assiste, contemporaneamente, ad una sostanziale unificazione del mondo. La civiltà cessa di identificarsi con un contesto spaziale, un topos, ma si associa all'utopia (semanticamente non-luogo) temporale della condizione "moderna", esclusiva di ogni opposizione interna o esterna ad essa. In particolar modo, l'Occidente finisce di essere una terra, per divenire un tempo senza confini spaziali, smisurato, consacrato solo al tempo e alle sue categorie: il progresso, l'obsolescenza, il potere temporale.

Questo viaggio dell'umanità è frutto dell'intreccio di diverse concause. La nostra specie ha, rispetto alle altre, un modo di relazionarsi col resto della natura più dinamico ed aggressivo. Si tratta di un particolare tipo di adattamento, definito cultura. Fino all'era industriale, ogni popolo si trovava a fare i conti con l'ambiente naturale che gli era più prossimo. Per costruire il proprio ambiente artificiale -in cui si riconoscono l'aspetto materiale e simbolico della particolare cultura- utilizzava gli strumenti che la natura stessa immediatamente gli offriva. Le culture sono cioè molte e differenziate, espressione diretta della biodiversità. Occorre ricordare che la biodiversità -ossia l'estrema varietà delle specie e degli habitat- è un principio vitale essenziale, il presupposto stesso del continuo processo di scambio e interazione che costituisce la vita. Dunque, in una visione ecologista, che riconosca l'umanità come specie e come parte della natura, la diversità culturale -e l�organizzazione olistica che le corrisponde- è contemporaneamente valore e necessità.

Fino all'avvento dell'industrialismo e della mentalità tecnomorfa -che cioè ricalca il mondo della tecnica- la vita umana era permeata di senso del sacro. I razionalisti discrimano il sacro quale via di fuga approntata dall'umanità ingenua per spiegare ciò che un tempo era inspiegabile: la potenza delle forze naturali. Ci raccontano cioè, che l'umanità era ignorante e superstiziosa fino all�arrivo di Bacone, Galilei e Cartesio portatori della "illuminazione" e della "misurabilità" del vivente. Non meno riduttiva è la spiegazione del sacro come "proiezione" della necessità di amalgama sociale. Perlomeno, riconoscendo almeno la funzionalità del sacro, si dimostra come sia impossibile liquidare le manifestazioni delle antiche culture dell'umanità come semplici "infantilismi storici". In realtà, la dimensione sacra è quella che, riconoscendo in tutte le manifestazioni della vita un'intima coerenza complessiva (l'armonia aristotelica della potenza in atto: entelechia), costituisce l'humus vitale per ogni popolo, assicura il rispetto dell'equilibrio ecologico e, di conseguenza, la sopravvivenza della specie in quanto parte della natura tutta. Questo significa che, ai nostri occhi, la dimensione sacra è la dimensione reale della vita e che la sua progressiva estirpazione, definibile weberianamente come disincanto, costituisce una secca sconfitta per l'intelligenza umana.

La società contemporanea si basa sulla convinzione che l'uomo possa dominare la natura grazie alle sue facoltà razionali, ma esiste una profonda differenza fra razionalità e ragione (logos), che qui semplificheremo concettualmente col termine intelligenza. La razionalità è solo una componente dell'intelligenza umana, riflesso, quest'ultima, di qualcosa di più vasto e di più alto, che permea la vita in ogni sua manifestazione. È attraverso l'intelligenza che l�essere umano comprende oggettivamente la dimensione del sacro, percepisce l'essere.

Parte essenziale dell'intelligenza umana è la sensibilità (o empatia), ossia quella facoltà che ci permette di ritrovarci consapevolmente in sintonia con i ritmi profondi della natura e di intuire ciò che non può essere razionalmente spiegato. Facoltà presente in forma istintiva in ogni altra specie. L'intelligenza ha quindi a che fare con la totalità e, quindi, con l'armonica compresenza, in ognuno, del principio maschile e femminile. Quell'opposto concorde Eracliteo intento a evocare il fluire plastico del divenire oltre l�apparente dualismo.

Dal punto di vista umano, l�intelligenza ha a che fare con la dimensione collettiva dell'aggregarsi, in cui ognuno si riconosce come parte di qualcosa di più vasto e partecipa alla trama della vita nella sua interezza fatta di modelli, archetipi e simboli, da un lato; di cicli, suono, ritmi, dall�altro.

La razionalità è, invece, la capacità di elaborazione logico-matematica e di previsione a partire dai dati acquisiti con l'esperienza. È espressione parziale dell'individuo ed è determinata da una serie di condizionamenti, fra cui spicca quello sociale in una prospettiva metafisica antropocentrica. Averla elevata al rango di unica guida dell'attività umana, ha comportato una serie di conseguenze:

Lo squilibrio dovuto alla razionalizzazione si cristallizza nel potere della sopraffazione: l'artificiale sul naturale, il materiale sullo spirituale, i "progrediti" sugli "arretrati".

Questo significa che, qualunque sia il punto di vista da cui si critica la società contemporanea, per andare alla radice dei suoi mali e delle sue contraddizioni, bisogna affermare come centrale la questione ecologica, non già nei suoi effetti ultimi, "ambientali", ma nel suo significato profondo, ontologico, causale, di distacco fra cultura umana e natura.

Oggi l'individualismo e l'egoismo sono il motore stesso della società. Nel momento in cui la dimensione comunitaria è stata distrutta dall'incedere della modernità, è venuta meno la possibilità che l'individuo pensasse e vivesse compiutamente in termini di intelligenza piuttosto che di razionalità, perdendo così il senso di appartenenza con la più ampia comunità naturale.

In natura, ogni cosa è in relazione e la rottura della sintonia profonda che lega tutte le specie nella trama della vita inibisce la sensibilità dell�uomo a sentirsi parte dell�universo in un rapporto di corrispondenza elettiva tra micro e macrocosmo.

Vivere e pensare in termini razionali è riduttivo. Razionalizzare vuol dire semplificare, ridurre l'infinita complessità della vita ad una serie di dati manipolabili. L'individuo che perde il senso della comunità, perde la possibilità stessa di realizzarsi. È lo sradicamento interiore ed esteriore descritto da Simone Weil: l'utilitarismo persegue la libertà nell'emancipazione dell'avere, celando il valore della generosità sovraindividuale dell'essere.

Una somma di individui origina una società di massa, in cui i rapporti interpersonali sono basati sul fuggevole vantaggio immediato. È la società dello scambio, dell'interesse, del comportamento strumentale.

In una comunità, al contrario, il principio di riferimento è la reciprocità. Si agisce in vista del bene comune, riconoscendo nell'esistenza della comunità il fondamento stesso della propria realizzazione personale e la continuità che si perpetua nella cultura oltre la caducità del tempo e la condizione limitata della vita terrena.

Il principio della reciprocità esalta la persona, che è tanto più importante quanto più dona, quanto più è capace di creare e contribuire alla vita comunitaria. La comunità riconosce il contributo ricevuto e restituisce ciò che riceve in termini di prestigio e redistribuzione materiale ma, soprattutto, costituisce una circolarità spirituale: donami e donandomi mi riceverai, si scrive nel poema epico indù del Mahabharata.

La società dello scambio è una società in cui la razionalizzazione dei rapporti umani è sempre crescente. È una società che timorosa della fantasia e dell'imprevedibile serra i propri ranghi, pena la dissoluzione del tessuto relazionale.

La società dello scambio tende spontaneamente verso il totalitarismo e l'evoluzione dello Stato moderno, implica l'assorbimento fatale degli elementi naturali e vitali (vernacolari, per dirla con Ivan Illich), che alimentano la vita della comunità. Dalla famiglia, al vicinato, all'associazionismo sono i "corpi intermedi" evocati da Alexis de Tocqueville a lasciare il campo, sostituiti dall'ingegneria tecnica, giuridica e burocratica della cittadinanza.

Lo Stato, particolare organizzazione del potere, prevede una serie di razionalizzazioni estreme. Fra queste, confini rigidi all'interno dei quali vale una legge "uguale per tutti" e che "non ammette ignoranza" per cui una "volontà generale" uniforma conformisticamente gli individui in nome del progresso civile, nazionale o costituzionale: di "destra" e di "sinistra".

La grande accelerazione ha fortemente ridotto l'importanza dello Stato, delle leggi, dei confini. Oggi il totalitarismo è l'essenza stessa della megamacchina mondiale, alle cui leggi economiche e alla sua "metafisica" finanziaria, siamo sottoposti planetariamente. Il totalitarismo è perfettamente realizzato dalla omogeneizzazione culturale, espressa dai mezzi di comunicazione di massa e dalla mercificazione consumistica della esistenza.

Quali possono essere, in questo scenario nichilistico, i motivi di una inversione di rotta? È possibile un'altra modernità che disarcioni l'estroversa cavalcata prometeica della occidentalizzazione del mondo?

Noi pensiamo all'introversione pudica di un ritrovato senso del limite, di un orizzonte limitato ma reale, sostanziale, certi che, oltre ogni astrazione cosmopolita, in ogni luogo, esista -per dirla con Mircea Eliade- un "centro del mondo" possibile. L'unico reincantamento praticabile passa giocoforza attraverso la risacralizzazione della natura e, gli elementi che ci fanno pensare a un futuro non scontato e in controtendenza sono:

L'essenza di una prospettiva olistica sta nella volontà di riconnettersi col proprio luogo, sottraendolo al controllo della megamacchina, per ristabilire il corretto rapporto con il mondo naturale. È possibile ritrovare la connessione intima con l'intera trama della vita e rinunciare a porsi in posizioni di dominio -peraltro apparente e temporaneo- ricreando reciprocità ed armonia tra l'uomo e la natura. È possibile, però, solo se si torna ad essere abitanti del luogo, se cioè si recuperano solide radici tramite le quali acquisire una nuova consapevolezza del Pianeta come essere vivente. Si tratta di sviluppare una sensibilità ecocentrica con cui costruire, nel ventre stesso della società dello scambio, una rete di ambiti di reciprocità in cui possano svilupparsi comunità locali rigenerate -in grado di autogovernarsi e di rielaborare o ritrovare la propria cultura indipendente dalla omogeneizzazione globale- legate strettamente alla compatibilità ambientale.

La megamacchina opera per affermare la propria cultura unica, il suo stile di vita universale. Il suo obiettivo è quello di ridurre tutti i popoli ad una unica grande massa omogenea e quindi malleabile a piacimento. Cerca di raggiungere questo obiettivo più che con la costrizione, con la metabolizzazione e sterilizzazione culturale, sociale e politica.

Il paesaggio umano della megamacchina assomiglia sinistramente al paesaggio conforme che la sua agricoltura industriale ci sottopone: sterminate distese uniformi, in cui le macchine possono lavorare indisturbate, del tutto simili alle devastanti periferie delle metastasi urbane.

Dobbiamo sottrarci tanto al progetto di un mondo naturale rimodellato "razionalmente" piatto, squadrato, utile, quanto alla sua replica sociale, altrettanto piatta e razionalizzata, destinata a diventare spiritualmente sterile come il suolo iper-sfruttato, trattato come mera risorsa materiale, diviene presto incapace di produrre frutti.

La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l'impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Se c'è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite.

Una comunità locale, nel suo rapporto con il territorio, rimanda alla sua identità e quindi alla capacità di saper riconoscere le proprie frontiere. Queste ultime, non hanno nulla a che vedere con i confini degli Stati, tracciati arbitrariamente e sinonimo di separazione. La frontiera dell'identità locale è un limite naturale, esattamente come la pelle per il corpo umano o come le membrane che assicurano ad ogni singola cellula la propria autonomia, ma anche la relazione con il resto dell'organismo. La pratica bioregionalista, in tal senso, si pone come vera avanguardia delle tendenze più interessanti espresse dal movimento della "ecologia del profondo".

Le frontiere dell'identità locale, rigidamente indisposte verso l'alto -nei confronti cioè della megamacchina- sono il luogo dell'incontro e dello scambio culturale ed economico. Nessuna identità locale può essere esclusivamente autosufficiente; in una società olistica, la piccola scala dell'organizzazione sociale porterà all'interno a forme di collaborazione, mentre all'esterno i rapporti saranno orientati verso forme di federazione e sussidiarietà, non di egemonia o espansionismo.

Certo, gli irenici sognatori sono figli, spesso ingenui, dell'utopia antropocentrica, ma il regno della pace assoluta, lo stato mondiale che celebri la fine della storia come conflitto, è il progetto dichiarato della megamacchina mondiale. Dietro la presunta difesa dei diritti individuali universali si nasconde l'arroganza dei più forti e interessati "sul mercato". La pace ha un senso soltanto in quanto conquista quotidiana nella tensione che aspira alla dignità dell'esistenza quindi, coniugata con l'altro insopprimibile bisogno umano: la giustizia. È abbondantemente dimostrato come il processo di globalizzazione a tutto abbia portato tranne che ad un mondo di pace e giustizia.

La soppressione delle differenze, comunque perseguita, oltre ad essere omicida -perché alla biodiversità deve necessariamente corrispondere la diversità culturale- genera mostri con l'esaltazione della diversità fine a se stessa, autoreferenziale, che si percepisce superiore, misantropica, e quindi aggressiva. L'integralismo, il neo-tribalismo e lo sciovinismo vanno di pari passo e, più probabilmente al traino, della schiacciante arroganza egemone dell'occidentalizzazione del mondo.

Cosa differenzia quindi un sentimento comunitario aperto, cosmogonico, da una comunità chiusa, tribale? Nella sua estroversione la considerazione per cui le altre comunità non negano la propria ma, anzi, la confermano nella necessità -questa sì universale- di radicamento. Nella sua introversione mostrandosi aperta e "libertaria", verso chi si sottragga ai valori e ai modelli espressi nella consuetudine, limitandosi ad affermare il bene comune in positivo, quale scelta individuale, di coscienza, non coercitiva.

Logica conseguenza di una prospettiva olistica è il quadro complessivo in cui sviluppare i molteplici cerchi concentrici che legano relazionalmente le comunità più piccole alle più grandi, sviluppando gli anticorpi naturali all'inclusione come all'esclusione. Comunità naturali, culturali, religiose e civili muovono sul piano dell'identità. Il respiro continentale deve esercitare quell'equilibrio tra il piccolo e il grande spazio omogeneo che coniughi universalità e pluralità in una comune tensione etica e politica.

 


Bibliografia

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Sulla dimensione continentale e la legittimità europea vedi DeBenoist, L'impero interiore, Firenze, 1996.

 

Eduardo Zarelli


Articolo inserito in data: giovedì, 2 marzo 2000.

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