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Platone e le Upanishad

di Paolo Scroccaro

da Materiali all'ombra dell'antica quercia, inedito.

[ la prima edizione occidentale delle Upanishad ]

Nel 1801 Anquetil-Duperron fece conoscere al mondo occidentale le Upanishad, delle quali aveva iniziato la versione latina, sulla base di una traduzione persiana commissionata verso il 1657 dal principe Dara Shukoh; questi, discendente dell'imperatore moghul Akbar (1542-1605) era intenzionato, al pari del grande avo, a trovare un punto d'incontro tra le grandi correnti spirituali, evitando esclusivismi e guerre di religione.

Esistono numerosissime convergenze tra le opere platoniche e le Upanishad, comprese quelle più antiche, che precedono nel tempo, anche di molto, l'età di Platone. Tali corrispondenze risultano particolarmente significative, per una varietà di motivi, alcuni dei quali vogliamo qui ricordare di sfuggita:

  1. esse mostrano fondamentali affinità tra la metafisica greca e la sapienza indù, anche in assenza di influssi reciproci;
  2. la spiritualità indù risulta avere una portata metafisica di prim'ordine, contrariamente a quanto asserito superficialmente da troppe storiografie occidentali, le quali attribuiscono all'Induismo una dimensione solo religiosa e misticoide;
  3. a volte, certi aspetti dottrinari presenti nella filosofia greca, sono articolati con maggior completezza nei testi indù, i quali permettono di lumeggiare e meglio comprendere quanto esposto da Platone e altri autori;
  4. l'esame delle corrispondenze tra Platonismo e antico Induismo, fornisce un contributo indispensabile allo studio comparato delle grandi correnti spirituali dell'umanità.

Forniamo qui di seguito alcuni riferimenti per gli orientamenti di cui sopra, confrontando le opere platoniche con le Upanishad più antiche o classiche.
Nel citare i testi indù, viene spesso privilegiata la traduzione italiana realizzata da padre A. Elenjimittam, l'unica con testo sanscrito a fronte.

Corrispondenze

Occorre innanzitutto far notare che nei testi platonici e indù compaiono curiose espressioni e immagini che presentano straordinarie analogie; anche quando esse riguardano contenuti più cosmologici che metafisici, l'affinità non può che far riflettere con la serietà che l'argomento esige. Selezionandone alcune, possiamo cominciare dal Simposio e da Brhadaranyaka Upanishad, poiché vien spontaneo accostare il noto mito dell'androgino, a quanto narrato in quella che viene considerata la più antica delle Upanishad, ove si legge:

"In principio l'universo era il solo Atman in forma di purusha (uomo cosmico primordiale). Esso aveva dimensioni che uguaglierebbero quelle di un uomo e una donna. Egli si divise in due corpi separati... Per questo il saggio Yajnavalkya insegnò che il maschile è solo una meta, e l'altra meta e il femminile" (I, IV, 1 e 3).

Nel Simposio si narra che in origine vi era "l'androgino, un sesso a sé, del quale la forma e il nome partecipavano del maschile e del femminile" (189 e), poi "tale natura fu tagliata in due" (191 a), "ognuno di noi é dunque la meta simbolica di un essere tagliato in due" (191 d), mentre l'amore "restaura l'antico nostro essere perché tenta di fare di due una creatura sola e di risanare cosi la natura umana" (191 d).
Ricorderemo di sfuggita che simili immagini mitologiche non svolgono un ruolo meramente decorativo, ma hanno un grande valore nelle rispettive tradizioni, perché costituiscono punti di riferimento essenziali per la dottrina degli opposti e della loro integrazione, dottrina che ha trovato nell'antichità occidentale e orientale innumerevoli applicazioni "scientifiche" e "artistiche", di cui dovremo dire in altra occasione.

"È verso il basso che si dirigono i suoi rami, è in alto che si trovano le sue radici, è dall'alto che i suoi raggi scendono su di noi"(Rg Veda, I, 24, 7).

Anche in tradizioni molto antiche e di varia provenienza, l'Albero Rovesciato allude a contenuti metafisici e cosmologici, che qui possiamo citare solo di passaggio. Le radici fissate in cielo indicano il riferimento al principio fondante, e quindi la necessità di completare la conoscenza verso l'alto, spiegando l'originato a partire dalla "causa celeste", in quanto radice originaria; i rami tendenti verso il basso rappresentano lo svolgersi del divenire e della molteplicità, e quindi la progressiva "solidificazione" della manifestazione, come è ben detto in una Upanishad tardiva, ma non per questo priva di autorevolezza:

"Il supremo Brahman ha le sue radici volte verso il cielo, i suoi rami sono l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra e i suoi prodotti" (Maitri Upanishad, VI, 4).

Il simbolismo dell'albero rovesciato compare in Platone e in Katha Upanishad, riferito all'uomo nel primo caso e all'universo nel secondo: nel Timeo, l'uomo é immaginato come un albero, con le radici piantate non in terra, ma in cielo (cfr.90 a); in Katha Upanishad é scritto che "questo universo può essere paragonato a quell'albero perenne le cui radici scendono dall'alto, mentre i rami spuntano in basso. La radice di quest'albero é di una purezza assoluta, é Brahman..."(II, III, 1 cfr. Elenjimittam) (II, VI, 1).
Nonostante i diversi contesti di applicazione, é straordinario vedere l'attivazione di una stessa immagine simbolica, tramite la quale l'analogia dei contenuti veicolati diventa ancora più significativa, specie se si tiene a mente la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, tipica della cultura indù e greca.
Questa importante Upanishad si sofferma anche su un tema caro al pensiero etico-sociale di Platone, sviluppato soprattutto in Stato e Leggi, ma ricorrente anche in altre opere.
In Katha-Upanishad, é scritto: "Dopo debita considerazione, hai anche scartato le ricchezze, rinunciato alla strada degli uomini ricchi, a quella ricchezza cioè che conduce l'umanità alla rovina"(I, II, 3). Ed inoltre: "Ampiamente divergenti, diametralmente opposte una all'altra, stanno la conoscenza e l'ignoranza, che si rivolgono a due diverse destinazioni. Io ti ho accettato, Nachiketa, come candidato alla saggezza e alla conoscenza, poiché questi piacevoli oggetti, per ricchi e vari che fossero, non ti hanno distratto dal tuo scopo"(I, II, 4).
"Per la gioventù spensierata, non discriminante, di livello inferiore, illusa dalla tentazione della ricchezza, la via che conduce alla beatitudine immortale rimane non rivelata. Esiste solo questo mondo, niente al di là, né al di sopra...."(I, II, 6).

Tra gli innumerevoli passi platonici, sarà sufficiente citarne qualcuno a mo' di esempio:"... il divieto di appropriarsi di una ricchezza eccessiva é non piccolo aiuto alla saggia temperanza; così tutto il sistema educativo é stato regolato adeguatamente allo stesso scopo"(Leggi, 836 a). "... é impossibile essere insieme molto ricco ed onesto"(Leggi, 742 e). In Stato, il desiderio che domina l'uomo materialista viene definito "nocivo al corpo e nocivo alla anima sotto il rispetto della saggezza e della temperanza" (559 b-c), giudizio che si accorda con quello di Katha-Upanishad. Al contrario, "chi di noi é saggio e temperante é amico alla divinità, perché le assomiglia"(Leggi 716 d). Per il resto, non possiamo che rinviare alla dottrina etico-politica di Platone.

Passiamo ora all'Upanishad dal nome significativo di Svetasvatara, nella quale "il saggio Svetasvatara ha esposto perfettamente la via della purificazione per identificarsi con Dio, riservata ai discepoli più avanzati"(VI, 20). Sveta significa bianco, e asva cavallo; si tratta quindi dell'Upanishad del "cavallo bianco", espressione simbolica carica di significato, che invita ad un confronto con l'analoga immagine presente in Platone nel mito del carro alato del Fedro. Per l'essenziale, l'accostamento é tutt'altro che ingiustificato: una lettura del testo sacro indù mostra che le convergenze non sono certo occasionali. Al contrario, esse investono i contenuti più decisivi delle rispettive correnti spirituali.
Ci limiteremo a ricordare l'espressione che compare in Svetasvara, II, 9:"L'aspirante deve tenere la mente sotto perfetto controllo, come un cocchiere tiene alle redini i destrieri bizzarri". Anche in Katha Upanishad compaiono analoghi significati, per cui: "Il corpo é simile a un carro di cui l'Atman é il padrone" (I, III, 3), "....quando l'io resta associato al corpo e agli oggetti corporei dei sensi, anche la mente diventa irrequieta, al pari di un cavallo riottoso nelle mani del guidatore. Allora l'uomo perde se stesso" (I, III, 5). "Ma quando si ha il controllo della propria mente attraverso una severa padronanza dei sensi e si acquista la discriminazione, si acquista un potere completo sui sensi, proprio come il guidatore padroneggia cavalli addestrati(I, III, 6). Si confronti tutto questo con Fedro XXV, XXVI e XXXIV.

Il simbolismo del Sole, proposto da Platone per esporre aspetti dottrinari di grande rilevanza, é ampiamente utilizzato nei testi sacri indù. Non a caso in India il saluto al Sole si perde nella notte dei tempi (usanza che vale per le civiltà tradizionali in genere.
"Il Sole é la verità", si legge in Brhadaranyaka Upanishad (V, V, 2). "Brahman é il Sole; il Sole é Brahman", é scritto in Chandogya Upanishad ( III, XIX, 1).
"In realtà, il datore dell'energia vitale a tutte le creature, é il sole ... Il sole illumina tutte le creature, conferendo loro vita, vigore e forma, e tiene entro il suo abbraccio vitale tutto il creato" (Prashna Upanishad I, 5).
"Alcuni saggi interpretano questo sole come il padre delle cinque stagioni dell'anno, il progenitore dei dodici mesi lunari ... Alcuni altri concepiscono il sole come il centro del nostro mondo"(Prashna Upanishad I, 11).
"Il prana del mondo é il sole, é l'energia vitale esteriore. Il sole sorge come prana per dare agli occhi la capacità di vedere" (Prashna Upanishad III, 8).
Come si può notare, il simbolismo solare viene considerato secondo molteplici aspetti, metafisici o cosmologici. Questa varietà di significati compare anche nel Platonismo. Basterà ricordare in particolare Stato, VI, 508 a: "A quale dunque tra gli dei del cielo puoi attribuire questo potere? Un dio la cui luce permette alla nostra vista di vedere nel miglior modo e alle cose visibili di farsi vedere? Quello, rispose, che tu e gli altri riconoscete: é chiaro che la tua domanda si riferisce al sole". E poco più oltre (508 b-c): "...io chiamo il sole prole del bene, generato dal bene a propria immagine. Ciò che nel mondo intelligibile il bene é rispetto all'intelletto e agli oggetti intelligibili, nel mondo visibile é il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili".
Per una più ampia disamina sul posto del simbolismo solare nella metafisica platonica, in assenza del perduto trattato di Porfirio Sul Sole, conviene rivolgersi con fiducia all'illuminante testo di Giuliano Imperatore A Helios Re, ricordando l'Augusto come uno dei più esemplari seguaci del culto solare, culto che per altro ha sempre accomunato tutti gli appartenenti ai sodalizi platonici.

La dottrina delfica e socratica del "conosci te stesso" in realtà é una dottrina dal carattere universale, che come tale é presente in tutte le espressioni della filosofia perenne, quindi anche nelle Upanishad e in Platone. Per quanto riguarda quest'ultimo, abbiamo detto altrove che essa é compendiata soprattutto nell'Alcibiade Primo, opera che non a caso é stata oggetto di meditate riflessioni da parte dei Neoplatonici (cfr. il commento di Proclo in particolare). Perfino il simbolismo del carro alato del Fedro, deve essere letto nella prospettiva secondo cui l'essenza più universale dell'uomo non é certo la componente psichica, ma quella intellettuale-spirituale, come abbiamo precisato in altra occasione. Dal Pitagorismo al Platonismo, la triade corpo-psiche-spirito compare quale struttura fondamentale dell'uomo, che ne riassume in modo adeguato l'aspetto "umano" e quello "divino".

Nelle Upanishad, l'essenza universale, intellettuale e divina che costituisce il centro dell'io é Atman. "Questo supremo Brahman, atman universale, immensa dimora di tutto ciò che esiste, più sottile di ogni cosa sottile, costante: in verità é te stesso, perché Tu sei Quello" (Kaivalya Upanishad, I, 16).
"Quando si é conosciuto l'atman supremo, che riposa in un posto nascosto, senza parti e senza dualità, [quale] Testimone, esente dall'essere e dal non-essere, si perviene alla condizione dell'atman universale" (Kaivalya Upanishad II, 23-24).
In Chandogya Upanishad sono presenti numerosissimi riferimenti alla dottrina di cui sopra: "Per quanto riguarda l'essenza sottile, da essa ogni cosa é animata; essa é l'unica realtà; essa é l'atman; e tu stesso, Svetaketu, Tu sei Quello" (VI, X, 3).
"Questa sottile essenza anima tutte le cose; essa é l'unica realtà; essa é l'atman. E tu, Svetaketu, Tu sei Quello" (VI, XII, 3).
In Svetasvara Upanishad si dice: "più sottile del sottile, più grande di ciò che é grande, egli abita in quanto Sé (Atman) nel cuore di ogni creatura. Colui il quale lo vede, incondizionato, augusto, signore, diventa privo di dolore ..." (III, 20).

Il nesso purificazione-conoscenza-realizzazione interiore qualifica le opere platoniche e quelle indù, che rifiutano un'idea astratta di conoscenza, ridotta a erudizione, a relativismo scettico o pragmatico, a dualità soggetto-oggetto. In Mundaka Upanishad é scritto che "... solo quando compare l'alba di quella conoscenza che segue lo sforzo incessante, volto alla purificazione del cuore, ci poniamo nella condizione favorevole per comprenderlo [l'Atman]" (III, I, 8). E poco oltre (III, II, 3 e 4): "Questo Atman non può essere appreso mediante insegnamento, né mediante sacrificio, né mediante molte lezioni ... Questo Atman non é conseguibile per colui che manchi di determinazione, che ceda alle illusioni, o compia una ascesi irregolare".
E a proposito di conoscenza come sperimentazione-realizzazione: "Colui il quale conosce questo supremo Brahman, costui diventa il medesimo Brahman"(III, II, 9). Perentoriamente, verso la fine di questa Upanishad si sottolinea che "la conoscenza del Brahman deve essere impartita unicamente a coloro i quali si dimostrino costanti nella propria aspirazione verso Dio, obbedendo alle sue leggi e mantenendosi puri nel più profondo del cuore"(III, II, 10).
Non diversamente in Katha Upanishad si avverte: "Attraverso il solo studio delle scritture o con l'erudizione non si può realizzare l'Atman, e nemmeno tramite l'intellettualismo e i dibattiti in aula" (I, II, 23).
L'esortazione a superare l'erudizione esteriore in nome della conoscenza-sperimentazione diretta, si trova anche in Brahmabindù Upanishad: "Il saggio, dopo aver studiato i trattati della conoscenza religiosa e profana, abbandoni completamente tali trattati, come colui che cercando il seme abbandona la scorza"(18). "Si deve fermare [la mente] nel cuore fino a quando non sia resa al silenzio: questa [condizione] costituisce la vera conoscenza e la liberazione, tutto il resto non rappresenta altro che letteratura verbosa"(5).
Tale posizione trova decisa espressione in Chandogya Upanishad: "Sì, conosco solo i testi sacri, venerabile maestro, ma con ciò non conosco il Sé (Atman). Da grandi maestri come te ho appreso che l'uomo che conosce il Sé supera ogni dolore. Io mi trovo in uno stato di dolore. Vogliate compiacervi, venerato maestro, di farmi superare ogni dolore". Ed ecco la risposta del maestro Sanathkumara: "Tutto ciò che hai studiato non é che un insieme di parole"(VII, I, 3).
Il tema della purificazione-realizzazione é così esposto in Svetasvara Upanishad: "Come un pezzo di metallo, uno specchio, brilla dopo averne tolto il sudiciume, così accade alla mente racchiusa in un corpo se realizza l'Atman, perché si libera dal dolore e si fa una con l'Eterno-Reale"(II, 14).
Il disprezzo per le degenerazioni intellettualistiche é concisamente manifestato in Brhadaranyaka Upanishad: "In un buio spaventevole entrano quanti vivono nell'ignoranza, ed in un buio ancora peggiore quanti hanno solo una conoscenza teorica"(IV, IV, 10).
Completiamo la rassegna su questo tema, citando Taittirya Upanishad, la dove si fa parlare prima il saggio Rathiira: "ciò che conta é solo la verità vissuta", e poi il maestro Taponitya: "Solo con l'ascesi si raggiunge Brahman" (I, 9). Il citato capitolo si chiude con questo commento: "Infatti sia quello [l'autentico sapere], sia questo [l'ascesi], in realtà sono identici".

In Platone troviamo espressa con vigore la denuncia delle degenerazioni cerebralistiche e delle vuote verbosità, che nulla hanno in comune con la filosofia. Basti pensare all'esaltazione dello stile laconico, quale compare nel Protagora, dove si afferma che "nei ragionamenti filosofici gli Spartani hanno un'ottima formazione" e "laconizzare significa filosofare" (342 d - e).
In aggiunta, si rifletta sull'importanza della dialettica: intesa in modo autentico, essa é procedimento ascensivo, tendente al Bene (Principio): "Il metodo dialettico é il solo a procedere per questa via, eliminando le ipotesi, verso il principio stesso" (Stato VII, 533 d). Essa però può degenerare in iper-criticismo nichilistico fine a se stesso, e questo é il caso dei giovincelli presuntuosi, che "non appena assaporano la dialettica, se ne servono come per gioco, usandola sempre per contraddire ... ecco perché sono screditati e coinvolgono nel discredito l'intero mondo della filosofia" (Stato VII, 539 b-c). Perciò "coloro che si faranno partecipare alla dialettica devono avere natura ordinata e ferma"(Stato VII, 539 d).
Denunciate le deviazioni, occorre fornire un modello positivo di sapere, implicante concretezza e realizzazione: a ciò allude Platone, quando dice che il filosofo "é il miglior giudice, tra i nostri uomini" perché "sarà l'unico a unire esperienza a intelligenza"(Stato IX, 582 d). L'intelligenza platonica é capacita intellettiva purificata tramite la pratica delle virtù (cfr. le schede dedicate al Bene e alle Virtù cardinali in Platone), che costituisce un vero e proprio itinerario di ascesi-conoscenza: questo atteggiamento spirituale corrisponde perfettamente a quello che si esprime nelle Upanishad.

I passi fin qui indicati sarebbero senz'altro più che sufficienti per mostrare che le corrispondenze tra Upanishad e Platonismo sono tutt'altro che superficiali, e coinvolgono invece contenuti di grande rilevanza. Vogliamo però completare questa rassegna, presupposto per una più ampia articolazione, toccando qualche altro aspetto, di notevole portata metafisica, per evidenziare una volta di più che le affinità riguardano l'intera struttura dottrinaria, e, non ultimo, il vertice di essa.
A questo proposito, Upanishad e Platonismo espongono una concezione dell'Infinito metafisico, presentata rispettivamente in riferimento alle dottrine dell'Atman supremo, o del "Brahman nirguna", e del Bene. Allo stesso modo, distinguono i vari gradi del conoscere, fissando come criterio di gerarchizzazione il loro rapporto con la conoscenza suprema che ha per fine quanto sopra richiamato.
In Mundaka Upanishad, cosi viene trattata la distinzione tra la conoscenza suprema e le scienze subordinate: "Due sono i tipi di conoscenza che un uomo può acquisire. Uno é il più alto, l'altro il più basso. Coloro che conoscono il Brahman ci hanno trasmesso questa tradizione"(I, I, 4).
"È attraverso la conoscenza superiore che raggiungeremo l'informale. La scienza divina ci svela la conoscenza di quella realtà che trascende i sensi, rivela il principio, la causa incausata di tutto, l'Uno che non ha forma né nome..." (I, I, 6).
"Fa parte delle scienze inferiori lo studio di: Rg Veda, Yajur Veda, Sama Veda e Atharva Veda; fonetica, liturgia, grammatica, etimologia, poesia metrica, astronomia (e di tutti gli altri rami delle scienze empiriche). Solo la suprema conoscenza ci permette dunque di realizzare l'Essere perfetto" (I, I, 5).

Platone parla dei gradi del conoscere in varie opere: in particolare, é fin troppo nota la riflessione condotta nel libro VII di Stato, sotto lo stimolo del mito della caverna, al quale rinviamo. Anche il dialogo sviluppato nell'Alcibiade Secondo affronta questo tema, e le parole di Socrate risultano assai significative: "... il possesso di molte scienze, quando non sia accompagnato dalla scienza di ciò che é il meglio sempre in ogni caso, poche volte é utile, e il più delle volte danneggia ... bisogna che la città o l'anima, che voglia vivere rettamente, si tenga stretta a questa scienza ... Perché senza questa scienza ... più grandi sono gli errori che ne risultano. E chi per altro possiede la cosiddetta erudizione enciclopedica e politecnica, ma sia privo di questa scienza e sia guidato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, non si troverà giustamente e fuor di metafora in gran tempesta come chi sia tra i flutti del mare senza pilota..?" (146 e-147 b).
La scienza suprema da cui tutte le altre dipendono, é la scienza del Bene, considerato "causa di tutto ciò che é retto e bello" (Stato, VII, 517 c), "causa della scienza e della verità" (Stato, VII, 508 e).
Solo la conoscenza suprema, la metafisica, é capace di fondare la validità delle altre conoscenze, che per essa acquistano il loro autentico significato. In Chandogya Upanishad si espone una posizione non diversa, dato che "l'intellezione pura é superiore anche alla riflessione. Solo con essa si riescono a comprendere il Rg Veda, lo Yajur Veda, il Sama Veda e l' Atharva Veda, la storia leggendaria dei poemi epici, la grammatica, le cerimonie liturgiche per la venerazione dei defunti, l'aritmetica, la divinazione, la scienza della precisione dei tempi, la logica, l'etica, l'etimologia, la demonologia, le arti marziali, la fisica, l'astronomia. ... Tale intellezione pura vènerala come Brahman"(VII, VII, 1).

Quanto poi al Bene quale Infinito metafisico, si veda la scheda dedicata a tale dottrina in Platone. È il caso di ricordare pero che tale tema é ampiamente trattato nelle Upanishad, più ancora che nelle opere attribuite a Platone. La tensione verso l'Infinito-Totalita é una costante che accomuna le correnti spirituali di cui ci stiamo occupando: é fin troppo celebre la definizione platonica secondo cui "solo chi conosce l'intero é filosofo".
Nei testi indù, sono moltissimi i passi ampiamente significativi che si possono ricordare; ne riproponiamo alcuni, partendo da Brhadaranyaka Upanishad: "Se si batte un tamburo, non si distinguono le singole note, ma solo il loro insieme; cosi, gli esseri individuali possono esser capiti solamente nel tutto ... allo stesso modo, le creature non possono esser capite individualmente (IV, V, 8 e 9).
Il rapporto tra Uno e molteplice, tra sovra-formale e formale, tra il divino (impersonale e personale) e il mondo delle forme é oggetto di costante attenzione nell'Induismo. Cosi sintetizza Svetasvara Upanishad: "Ancora più alto del Brahma creatore, di Visnu protettore e di Siva, salvatore del creato, é l'Assoluto impersonale che dimora celato entro le diverse forme dei corpi ... L'Essere supremo trascende di gran lunga l'universo, pur essendo immanente in tutte le creature. Non ha forma perché trascende nomi e forme"(III, 7 e 10).
Nel capitolo IV, si parla dell'Essere supremo, senza colore e senza forma ma che concede tante forme e colori a miriadi di esseri" (IV, 1). Prashna Upanishad ricorre all'immagine efficace dei fiumi e dell'oceano: "... i vari fiumi, la cui destinazione é l'oceano, quando scorrono e poi spariscono nel grembo dell'oceano, perdono i loro nomi e forme ... i saggi, perdendo i loro nomi e le forme, diventano e vivono solo come il Sé" (VI, 5).
Lo stesso simbolismo é suggerito in Mundaka Upanishad: "Al pari dei fiumi principali e degli affluenti che, dopo aver raggiunto l'oceano, non si possono più distinguere, perdendo nomi e forma, anche il saggio, emancipandosi dalle sovrapposizioni limitative di nome e di forma, si immerge nell'Essere supremo, in quel Purusha auto-luminoso che sta al di la di tutto l'universo relativo" (III, zz, s).
Per aiutare l'intuizione dell'Infinito metafisico, Katha Upanishad usa le seguenti espressioni: "Privo di suono, senza forma, intangibile, non decadibile, senza sapore e odore, senza inizio e fine, immutabile, eterno, trascendente tutta la natura, ineffabile ... Coloro i quali possono realizzarlo, ed essi solamente, sono liberi dalle fauci della morte" (I, III, 15).
Si noti ancora una volta l'assonanza non solo contenutistica, ma anche linguistica, con un celebre passo delle opere platoniche: "In questo sito dimora quella essenza incolore, informale ed intangibile, contemplabile solo dallo intelletto, pilota dell'anima, quella essenza che é scaturigine della vera scienza" (Fedro, 247 c-d).
Terminiamo citando una Upanishad tardiva, breve ma ricca di significato e per questo considerata punto di riferimento per i contenuti di cui ci stiamo occupando: "Realtà, Conoscenza, Infinito sono Brahman ... Nel mondo delle cose periture: nome, forma, tempo, spazio, causalità; quello che non perisce é l'Imperituro ... Colui che dimora eternamente anche al di la del nome, della forma, del tempo-spazio e della causalità, e che viene designato con la parola Quello, ha nome Atman supremo ... Io non posso esser scorto sotto le forme dello spazio, del soffio vitale e altre [limitazioni]. Sono libero dalla forma, dal nome e dall'azione. Sono il Brahman, fatto di Esistenza, Coscienza e Beatitudine ... Questa é la Reale Scienza"(Sarvasara Upanishad).

Ci si soffermi sul fatto che anche per Platone il Bene implica realtà assoluta, conoscenza suprema, oltrepassamento del divenire e della forma-limitazione, quindi realizzazione di liberazione e beatitudine.
Suggeriamo alcuni brani, seguendo l'avvertenza di mettere tra parentesi, per cosi dire, alcune difficoltà linguistiche di cui Platone era cosciente: "... gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal Bene la proprietà di esser conosciuti, ma ne ottengono ancora l'esistenza e l'essenza, anche se il Bene non é essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l'essenza" (Stato, VI, 509 b).
"... nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedersi é l'idea del bene; ma quando la si é veduta, l'intelligenza ci porta a ritenerla la causa di tutto ciò che é retto e bello" (Stato, VII, 517 b-c).
"... quando il pensiero mira l'essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene" (Fedro, 247 d).
Di seguito, Platone invita al sapere supremo, alla scienza, "ma non quella che é legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che é nell'essere che veramente é".
Messa in risalto l'assoluta positività del Bene platonico e dell'Atman-Brahman indù, nonché della Conoscenza-Realizzazione che da essi deriva, non resta che rimarcare una volta di più l'importanza di questo aspetto dottrinario, del quale gli scritti platonici, pur non fornendo una trattazione sistematica, offrono una serie di forti allusioni e rimandi alle lezioni orali interne all'Accademia. Il lettore interessato può pero rivolgersi alle Enneadi di Plotino e alla Teologia Platonica di Proclo (specie II, IV), per le preziose considerazioni sui rapporti Bene-Essere e sulla "trascendenza" del primo.
Questi meditati commenti non potranno che favorire, precisare e arricchire lo studio comparato delle forme assunte dalla philosophia perennis in Occidente e in Oriente.

Paolo Scroccaro>

 

 

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Articolo inserito in data: giovedì, 20 ottobre, 1998.

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