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Hic homo intelligit? (Umanesimo e conoscenza)

di Paolo Scroccaro

«In te risplende l'eterno atman, il Testimone universale, immanente nell'intelletto [...]. Rafforza la tua identità con l'atman e ripudia contemporaneamente il senso dell'io con le sue modificazioni, le quali non hanno nessun valore [...]» (Samkara, Vivekacudamani. il gran gioiello della discrininazione, 380, 382)

"L'intelligenza agente è per l'intelletto possibile dell'uomo ciò che il sole è per l'occhio, il quale, finché sta nelle tenebre, rimane visione in potenza" (Al Farabi)

Nella cultura umanistica, che pur si suddivide in innumerevoli rivoli, la risposta alla domanda posta nel titolo è ovvia: l'atto conoscitivo non può che dipendere da un qualche soggetto umano. Benché esso possa esser pensato in modo diverso nelle varie filosofie, la fede in questa convinzione è così forte, oggi, da rendere improbabile qualsiasi seria riflessione in merito, perché non si può mettere in discussione ciò che appare evidente e condiviso. Eppure si dimentica che questa evidenza -hic homo intelligit (letteralmente: "questo uomo conosce")- è in realtà una tormentata acquisizione abbastanza recente, priva di antica tradizione, presente un tempo solo in correnti del tutto marginali e poi nell'ambito di certa cultura cristiana troppo impegnata a distinguersi da quella classica, rispetto alla quale pretendeva di trovare un'identità specifica capace di rompere gli "equivoci" dottrinari che la legavano al cosiddetto paganesimo1.
Operando in tale direzioni, si è favorito l'affermarsi, sia pure in modo non intenzionale, dell'umanesimo, che poi ha trovato anche notevoli versioni laiche e, almeno in apparenza, talvolta anticristiane. Se l'umanesimo è nato con la credenza nello «hic homo intelligit», per comprendere il fenomeno è opportuno riandare alle sue origini, quando ancora tale credenza non era considerata un'evidenza, ed anzi doveva faticare per farsi accettare in qualche modo. Ricorderemo solo i riferimenti più essenziali: la polemica circa il valore del soggetto tra S. Agostino ed il Neoplatonismo, e quella tra S. Tommaso e la metafisica musulmana, rappresentata nell'Europa cattolica da Avicenna e Averroé.

Diversi secoli separano Plotino e Agostino da Averroé e Tommaso, ma i termini fondamentali del problema sono rimasti invariati nella sostanza2. Tenteremo di riassumerli brevemente, restituendo ad essi il loro valore, anche in relazione al presente: non si tratta infatti di pezzi d'antiquariato per i quali nutrire un'astratta curiosità. Ben di più è in gioco la dignità o meno della civiltà, ieri come oggi.
Infatti, possiamo catalogare le diverse forme di civiltà in due tipologie principali: quelle che sono manifestazione dell'arroganza dell'io, e che conducono quindi ad una continua ed irrefrenabile espansione delle peggiori tendenze meramente individuali (è il caso, per lo più, delle società contemporanee), e quelle che, al contrario, sono interiormente vivificate dalla spiritualità metafisica la quale, essendo espressione dell'intelligenza sovraindividuale, in una forma o nell'altra, prevede l'estinzione o almeno il ridimensionamento dell'ego, orientando quindi la comunità verso una saggezza del vivere esente dall'aggressività antropocentrica, qualificata invece dalla "misura" e dalla disciplina interiore ed esteriore.

Consistenti avvisaglie del punto di vista umanistico si possono individuare in certi risvolti del Tomismo, allorché il pensiero del doctor angelicus propone formule del tipo:

«Non è infatti l'intelletto che conosce, ma [questo] uomo» (Quaestio 2 de veritate).

«È manifesto infatti che è quest'uomo singolo a pensare» (De unitate intellectus contra averroistas).

Nella Summa contra gentiles, confrontandosi con i filosofi islamici scrive:

«L'intelletto possibile non è unico in tutti gli uomini, come pensò Averroè» (LX, II, 73).

«Neppure l'intelletto agente è unico per tutti, come ritengono Alessandro e Avicenna» (LXI, II, 76).

Tommaso intende contrapporsi, per certi aspetti, ad una lunga tradizione, di origine pitagorica, ancora ben viva nel Medio Evo, nel mondo cristiano come in quello musulmano (per non dire dell'estremo oriente); tradizione che considerava una superficiale trivialità la presunta evidenza dello «hic homo intelligit».

Intelletto universale e mente individuale

«l'intelletto supera per valore e dignità l'anima tanto quanto l'anima supera il corpo [...]. Nell'assemblaggio di questi tre fattori la terra fornisce il corpo, la luna l'anima e il sole l'intelletto [...] l'intelletto è impassibile e sovrano" (Plutarco, Il volto della luna).

Si intenda rettamente: Platone, Aristotele, Avicenna e i loro attuali continuatori non intendono certo negare il fatto che gli individui, in circostanze mutevoli, producono costrutti mentali diversi circa il mondo, immagini e opinioni estremamente variegate e a volte contrapposte, come è facile constatare. In questo proliferare di idee mentali, è in azione, effettivamente, la psiche del singolo uomo (il "manas" della tradizione indù); possiamo anche aggiungere, seguendo Protagora, prototipo dell'umanesimo relativista, che la molteplicità delle opinioni proposte deve avere un motivo forte, e questo va per lo più ricercato nella componente pragmatica dello psichismo, che spinge i mortali ad elaborare precarie visioni del mondo proporzionate alla forza e alla diversità degli interessi in campo. Qui, l'uomo effettivamente appare come "misura" del conoscere e dell'agire, come loro fondamento: questo è quanto viene confermato dallo stesso Kant, che raccoglie i frutti bacati dell'umanesimo cercando invano di nobilitarli e portando l'antropocentrismo a conseguenze estreme. Siamo in prossimità della "Volontà" di Schopenhauer, della "Volontà di potenza" di Nietzsche, autori cui bisogna comunque riconoscere il merito di aver smascherato le ipocrisie umanistiche.

Se si accetta il relativismo, nelle innumerevoli versioni che ha assunto da Protagora a Kant, a Popper, oggi seguito anche da chi non ha mai sentito parlare di tali pensatori, non si può comunque uscire dal circolo del soggettivismo, ormai di moda molto più che ai tempi di Socrate o di Tommaso: vale in questo caso il principio per cui "hic homo intelligit", e non potrebbe essere diversamente. Il successo, per nulla meditato, di questa posizione, oggi, non fa che testimoniare la volgarità di un'epoca che trasforma l'io in un dogma. La metafisica greca e orientale, e parte di quella cristiana, ha avuto il merito di indicare il trascendimento dello "hic homo intelligit", alla luce della distinzione tra conoscenza soggettiva, opinabile, calcolante (doxa, credenza, manas), e conoscenza autentica (episteme, sapienza, vidya), distinzione che concerne l'a-b-c della filosofia: da una parte "le opinioni dei mortali", dall'altra "la ben rotonda verità" (Parmenide); da una parte «il regno dell'illusione», dall'altra «la vera Conoscenza, secondo l'autentico significato accettato nelle Upanisad» (Samkara, Dhanyastakam. Otto versi sui beati).

È noto che nelle scuole spirituali tradizionali, a Oriente come a Occidente, il conoscere, lungi dall'essere un fatto meramente cerebrale-eruditivo, comportava una valenza realizzativa3 ed esigeva una trasmutazione interiore radicale: essa implicava ciò che i Pitagorici, i Vedantini e le altre scuole denominavano "ascesi purificatrice", ascesi centrata sull'estirpazione di ogni componente egoica ed utilitaristica, al fine di rendere possibile il conoscere puro, esente cioè da qualsiasi limitazione di ordine individuale e materiale (cfr. Giamblico, La vita pitagorica, e Samkara, Anatmasrivigarhana. Il sacro spregio del non Sé).

Il conoscere così inteso diventa impersonale, poiché non poggia sull'ego-persona (considerati appunto qualcosa di negativo, di limitativo) e sulle facoltà individuali (ragione, mente empirica, manas), ma sull'intelletto impersonale, puro specchio della Verità4, espressione che ritroviamo anche in Avicenna (v. Libro delle direttive, IX gruppo). Ricorderemo che in molte tradizioni L'Intelletto puro diventa il ricettacolo dell'ispirazione che conduce alla sapienza, formula che ben si accorda con la precedente e con altre ancora.

Ecco dunque il fine realizzativo di qualsiasi metafisica: riuscire a vedere-sperimentare non con la mente individuale condizionata, ma con l'occhio puro dell'intelletto incondizionato, con l'occhio del cuore (come dice F. Schuon nel testo che porta questo titolo); è questo il senso dell'ascesi filosofica, tolto il quale essa perde qualsiasi valore, dato che per percepire con la mente individuale, come tutti normalmente fanno, non occorre la filosofia, basta l'esistenza ordinaria priva di qualsiasi pretesa spirituale.
Ignorare questo passaggio decisivo, come fanno troppi storici della filosofia, significa perdere di vista l'essenza stessa del pensiero filosofico. Quando, nell'ambito della metafisica, si elogia la contemplazione, la visione intellettuale, la realizzazione del Sé... ci si riferisce sempre e comunque, nonostante la varietà delle formulazioni, ad una intellezione in definitiva sovraindividuale5, che sola qualifica la vera "scienza" realizzativa. Secondo la bella immagine di Avicenna, l'Intelletto attivo sovraindividuale è come il Fuoco, che alimenta la Lampada, cioè l'intelligenza potenziale dell'individuo.

"L'anima intelligente, quando comprende una cosa, comprende tramite l'unione con l'Intelletto agente" (Avicenna, Libro delle direttive, parte II, gruppo VII).

In questo contesto, si possono meglio apprezzare le discussioni medievali, tutt'altro che accademiche, sull'intelletto agente, considerato unico e impersonale dagli eredi della metafisica classica, ma non dal Tomismo (e da altre correnti filocristiane), che pure con essi ha dovuto confrontarsi. La posizione tomistica, che deve essere considerata una metafisica parziale, nella misura in cui è deturpata da cedimenti umanistici6, può essere condensata in questi termini: certo esiste un intelletto perfetto, esso però concerne Dio; l'uomo deve accontentarsi di un intelletto partecipato, quindi imperfetto e limitato, che in potenza potrebbe conoscere tutto, ma in atto conosce solo una parte dell'infinita ricchezza dell'Essere; al contrario l'intelletto divino conosce in atto ogni cosa, istantaneamente. L'intelletto umano, di fatto finito e limitato, lo è secondo diverse modalità che vanno riferite ai diversi esseri umani, i quali conoscono certe cose e altre no: dunque, l'atto conoscitivo dipende dai singoli uomini concreti, capaci di moti intellettivi diversi da uomo a uomo. Perciò "hic homo intelligit".

I sostenitori dell'intelletto agente impersonale, dagli antichi ad Averroè, svolgono in linea di massima considerazioni così orientate: l'intelletto umano può ben mostrarsi in condizioni di finitudine, là dove non si sia in presenza di un sapiente realizzato. Concedendo questo, come è doveroso che sia, nulla si toglie alla validità veritativa del singolo atto intellettivo: se questo è veramente tale, e non semplice proiezione mentale soggettiva, dovrà per forza esser penetrazione di una forma-essenza; oppure, per dir la con Aristotele, il pensiero non potrà che cogliere l'unione di ciò che di fatto è unito, o al contrario la separazione.
Per farla breve: i singoli atti intellettivi, se effettivamente tali, benché limitati quanto all'ampiezza dei contenuti (cioè quantitativamente, estensivamente), non lo sono intensivamente, qualitativamente, in quanto colgono quella determinata forma, quella sintesi unitiva o quella separazione. Nonostante le diversità empiriche degli uomini singoli, quando essi penetrano quella determinata essenza la conoscono allo stesso modo (v. la dottrina delle Idee di Platone), e le differenze empiriche in quel momento non possono che svanire, altrimenti esse ostacolerebbero il conoscere condizionandolo secondo pretese meramente individuali che sono incompatibili con l'intellezione, riducendola ad arbitraria interpretazione personale. Quando effettivamente si conosce, le caratteristiche empiriche e personali vengono messe a tacere, almeno per l'attimo corrispondente al lampo dell'intuizione: perciò il fondamento del conoscere non può essere quest'uomo, ma l'intelletto in atto, unico e impersonale, proprio come insegnava anche Aristotele nel De anima7.

Ai singoli individui in carne ed ossa, ritenuti "concreti" dalle ideologie ordinarie, prive di spessore filosofico, rimangono solo le fantasie personali, le opinioni arbitrarie ed avventate8, di cui sembrano andar fieri gli umanisti di ogni tempo, e quindi anche del nostro. Per chi è libero dai pregiudizi umanistici, non può apparire strana l'affermazione di Avicenna, «guida dei sapienti», secondo il quale ogni atto intellettivo umano dipende da un unico intelletto agente, concepito come essenza angelica spirituale separata e sovraindividuale (la decima Intelligenza).
Quando l'uomo conosce, è perché l'illuminazione dovuta a tale Intelligenza angelica rende visibili le idee e le forme degli esseri9. Per l'essenziale, questa è l'evidenza che da sempre brilla al di fuori dell'umanesimo, ideologia individualistica e antropocentrica10, a malapena velata da una maschera rassicurante che la filosofia, o meglio la metafisica, da sempre è impegnata a togliere, in quanto impedimento per la realizzazione spirituale. Quest'ultima, nelle varie formulazioni tradizionali, può essere rappresentata in vari modi, per esempio come partecipazione o unione con l'intelletto agente11, come illuminazione da parte di quest'ultimo, o come ascesa dell'uomo fino al congiungimento con le intelligenze che muovono i corpi celesti e con la prima Intelligenza motrice (v. Alberto Magno, De intellectu)12.

In ogni caso, un evidente filo conduttore lega la diversità delle formulazioni.

«Coloro i quali, avendo abbandonato le nozioni di io e di mio, causa di schiavitù, considerano tutte le cose con equanimità; coloro che, avendo compreso che il Soggetto-Testimone del conoscere e distinto dall'ego [...] quelli sono i beati" (Samkara, Dhanyastakam. Otto versi sui beati, 4).

Per concludere, qui possiamo solo accennare ai rapporti intercorrenti tra intelletto trascendente e beatitudine; ci limitiamo a rimarcare che uno stesso contenuto sembra racchiuso nella diversità dei mezzi espositivi: esso concerne la vera natura dell'atto intellettivo e contemporaneamente l'estinzione dell'ego, quale condizione non solo del conoscere ma anche dell'autentica felicità. Una sintetica formulazione di Sigieri esprime molto bene la connessione cui si allude:

«Intellectus agens est Deus; felicitas est intellectus agens: ergo felicitas est Deus» (Libellus de felicitate)13.

Tale doveva essere la stazione spirituale frequentata da Plotino e da altri neoplatonici, i quali erano soliti così commentare, con distaccata serenità, l'uscita dalla Manifestazione:

«Io mi sforzo di ricondurre il Divino che è in me al Divina che è nell'universo».

Per quanto riguarda i gradi della realizzazione spirituale, e quindi della felicità, essi risultano proporzionati al grado di identificazione tra il singolo e l'intelletto agente.
Nella spiritualità islamica, la realizzazione completa ha come paradigma l'Uomo Universale, cioè il Profeta14:

«Un simile uomo si trova al rango più elevato della perfezione umana e al limite più alto della felicita. La sua anima è perfetta e unita all'Intelligenza agente» (Al Fârâbî, La città virtuosa, XXVII).

Ovviamente, l'espressione Uomo Universale non implica nessun cedimento alle pretese umanistiche, ed anzi comporta una totale negazione di esse, come ben evidenziano le dottrine relative a detta nozione metafisica15, sulla quale mediteremo in altra occasione.

 


Note

1- Una tradizione pressoché universale, presente in Oriente come in Occidente, pensa l'intelletto agente come trascendenza dell'ego e come principio dell'autentico conoscere. Vien perciò da chiedersi: come mai certa cristianità si è distaccata da tale concezione, dando così credito, magari involontario, alla mentalità umanistica? Non sono pochi coloro che hanno dovuto fare un'importante ammissione, rispondendo più o meno così: perché l'intelletto agente impersonale sembra comportare la negazione dell'immortalità della anima umana personale, quindi per motivi estrinseci rispetto alla pura istanza metafisica, dovuti soprattutto all'influsso di una dogmatica cristiana conciliare.
Ricorderemo solo che la fede nella sopravvivenza o nell'immortalità dell'anima singola, in quanto semplice fede che la valorizza come vertice dell'individualità, sembra esprimere una volta di più un'istanza sentimentale ed utilitaristica della mentalità individualistica: infatti l'attaccamento all'ego viene proiettato dal mondo terreno all'al di là. Non pare che tutto questo possa riguardare una rigorosa dottrina spirituale. torna al testo ^

2- Occorre rimarcare una volta di più che le distinzioni tra anima individuale e intelletto impersonale non sono invenzioni posteriori di certi filosofi medievali islamizzanti: esse sono ben presenti negli antichi e da essi i filosofi del Medio Evo hanno tratto perfino certi dettagli linguistici, come è facile constatare confrontando le rispettive opere. torna al testo ^

3- F. Schuon ha ben sintetizzato in questi termini: «esistere e conoscere, e ogni aspetto della nostra esistenza è uno stato di conoscenza, rispetto alla Conoscenza assoluta, uno stato d'ignoranza» (L'occhio del cuore, Mediterranee 1982, pag. 139).
Dal canto suo Avicenna, parlando delle trasformazioni che portano verso la perfezione spirituale, ha scritto che «la scienza spirituale comincia con una separazione, un distacco, un abbandono [...] presupposto per concentrare gli sforzi su un insieme, che è l'insieme degli attributi della Verità» (Libro delle direttive, gruppo IX). Più avanti, egli precisa che «il Conoscitore passa per degli stati in cui non sopporta nemmeno il mormorio del vento, e a maggior ragione il resto delle preoccupazioni che turbano lo spirito». torna al testo ^

4- « [...] ciò a cui si fa ritorno (con l'ascesi) non è altro che il Sé essenziale [...]. Ora, l'essenza della nostra persona è l'intelletto, di modo che il fine ultimo è vivere secondo l'intelletto» (Porfirio, De abstinentia, I, 29). Poco prima, Porfirio aveva ridimensionato il ruolo della ragione: «la contemplazione che ci conduce alla vera felicità non consiste affatto in una somma di ragionamenti e in una massa di informazioni, come si potrebbe credere. Essa non si costruisce pezzo per pezzo. La quantità dei ragionamenti non la fa progredire» (I, 29).
Si noti l'assonanza con Al Fârâbî: «Quanto all'intelletto che Aristotele menziona nel Libro sulla dimostrazione [v. Analitici posteriori], egli con esso non designa altro che la facoltà dell'anima mediante la quale arriva all'uomo la certezza nelle premesse universali, vere e necessarie, senza alcun ragionamento e riflessione» (Epistola sullo intelletto, Antenora 1974, pag. 94). torna al testo ^

5- «[...] intendiamo dunque con questo termine (mentale) l'insieme delle facoltà di conoscenza specificamente caratteristiche dell'individuo umano, la cui principale è la ragione. Abbiamo precisato abbastanza spesso la distinzione fra la ragione, facoltà di ordine puramente individuale, e l'intelletto puro, che invece è sopra-individuale [...] la conoscenza metafisica, nel vero significato della parola, essendo di ordine universale, sarebbe impossibile, se non vi fosse nell'essere una facoltà del medesimo ordine, dunque trascendente in rapporto allo individuo: questa facoltà è propriamente l'intuizione intellettuale» (R. Guénon, Considerazioni sulla via iniziatica, Basaia, pag. 276-277).
Non diversamente T. Burckardt: «Con intelletto vogliamo indicare l'intelligenza pura, che non è delimitata dal pensiero e che non è peculiare dell'individuo» (v. Introduzione a L'uomo universale di Al Jîlî, Mediterranee 1981, pag. 20). torna al testo ^

6- Nonostante tutto, bisogna dire che Tommaso non intendeva elogiare le facoltà meramente individuali, come faranno invece gli umanisti moderni; al contrario, egli ne evidenziava i limiti, e in ciò coinvolgeva perfino la più potente facoltà individuale, vale a dire la ragione, dato che

«la necessità della ragione scaturisce da una deficienza dello intelletto: infatti gli esseri in cui la potenza intellettiva è nel suo pieno vigore, come sono Dio e gli angeli, non hanno bisogno della ragione» (Summa theologica II, II, q. 49, art. 5).
«Da una imperfezione di natura intellettiva proviene la conoscenza razionale [...]. Perciò è evidente che la ragione è un'intelligenza difettosa" (Summa contra gentiles, L. I, cap. LVII, 8).
«Ora, al sommo della nostra conoscenza non troviamo la ragione, bensì l'intelletto, che è all'origine della ragione» (Summa contra gentiles, L. I, cap LVII, 7).

Aggiungiamo anche che uno spassionato esame degli scritti di Tommaso costringe a ridimensionare di molto le distanze intercorrenti con gli altri filosofi citati (cfr. Summa theologica I, q. 79, dedicata all'Intelletto). Certe differenze sembrano essere state schematizzate ed esasperate in un particolare contesto storico, caratterizzato da una carica polemica che non ha motivi irreversibili per sussistere. In Alberto Magno, poi, le differenze rispetto all'Averroismo sembrano svanire quasi completamente. Cfr. De anima e Metaphysicatorna al testo ^

7- «Quanto all'intelletto, sembra che sopravvenga in noi con una sua esistenza sostanziale e che non si corrompa [...] esso è impassibile [...] è, senza dubbio, qualcosa di più divino e di impassivo» (De anima, L. I, cap. IV, 408 b). «C'è pertanto un intelletto passivo (analogo alla materia) perché diventa tutte le cose e un altro agente (analogo alla causa agente) [...]. E questo intelletto è separato, non mescolato e attivo, per sua essenza atto [...] e questo solo è immortale ed eterno» (De anima, L. III, cap. V, 430 a). Nel De generatione animalium, l'intelletto viene dal di fuori (736 b 28) ed è il solo divino.
Citeremo anche una precisazione di R. Guénon: «Una cosa su cui è bene insistere [...] è la natura essenzialmente sopraindividuale dell'intelletto puro; d'altronde solo ciò che appartiene a quest'ordine può veramente esser detto trascendente, poiché questo termine non può normalmente esser applicato se non a quanto e al di là del dominio individuale. L'intelletto non è quindi mai individualizzato [...]» (Melanges, Venezia 1978, pag. 49-50). torna al testo ^

8- «In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l'idea a non esser più che una specie di fantasia [...]. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c'è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può esser nuova, poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l'errore» (R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Mediterranee 1985, pag. 85). torna al testo ^

9- « [...] l'intelletto in atto sta con le nostre anime nello stesso rapporto del sole con le nostre viste; e come il sole si vede di per sé in atto, e attraverso la sua luce fa vedere in atto ciò che non era visibile in atto, così è la situazione di questo intelletto rispetto alle nostre anime" (Avicenna, Kitâb al sifâ). Al di là di certi dettagli linguistici, risultano evidenti le analogie sostanziali con altre tradizioni: «Buddhi (Intelletto) svolge la funzione della determinazione intuitiva; invece il Sé, che grazie alla propria natura di puro splendore illumina costantemente colui (l'intelletto) che percepisce tutti gli oggetti, vien detto conoscitore» (Samkara, Upadesasâhasrî. L'istruzione in un migliaio di versi, II, 16, 4).
Il Sé-Testimone Conoscitore, corrispondente all'Intelletto eternamente in atto, trascende qualsiasi azione-movimento-modificazione, essendo Sole eternamente autorisplendente; perciò il termine Conoscitore (così come il termine intelletto agente) non deve far pensare all'azione del conoscere, ma all'immobilità e all'eternità della Coscienza Luminosa Pura e Infinita: «Come il Sole, sebbene affatto privo di azione, viene considerato come colui che illumina [...] nello stesso modo il Sé, benché abbia natura di pura Conoscenza, viene definito come il Conoscitore" (Samkara, ibidem, II, 15, 46). torna al testo ^

10- R. Guénon ha bene esposto il rapporto tra umanesimo e individualismo: «Ciò che noi intendiamo per individualismo è la negazione di ogni principio superiore all'individualità e quindi la riduzione della civiltà, in ogni suo dominio, ai suoi soli elementi puramente umani. In fondo, si tratta della stessa attitudine che all'epoca della Rinascenza, fu designata col nome di umanesimo» (La crisi del mondo moderno, pag. 83). torna al testo ^

11- «[...] l'uomo diventa l'ente più vicino all'intelletto agente: questa è la felicita suprema e l'ultima vita» (Al Fârâbî, Epistola sull'intelletto). torna al testo ^

12- Cfr. B. Nardi, Saggi sull'aristotelismo padovano, Sansoni 1958, cap. VI. Alberto Magno, pur critico dell'Averroismo e di certa filosofia islamizzante, in realtà non se ne distanzia troppo; infatti «egli professa con gran lusso di particolari la teoria avicenniana delle Intelligenze motrici dei cieli» (E. Brehier, La filosofia del medio evo, Einaudi 1980, pag. 322). Anche per Alberto Magno, «vi è un intelletto assolutamente separato [...] di cui l'intelletto umano è una sorte di immagine [...]; l'intelletto dell'uomo è in esso così come luci inferiori sono contenute in una luce superiore da cui, per influenza, esse ricevono forme e movimenti; tale influenza produttrice di forme e movimenti discende senza interruzione dalla causa prima» (Metaphysica, 1, XI, t. I, 9).
In aggiunta, è il caso di citare qualche ulteriore considerazione di T. Burckardt, volta ad allargare il campo delle corrispondenze:

«La dottrina ermetica dell'Intelletto universale coincide, insomma, con quella tramandataci dai Platonici in un linguaggio sostanzialmente analogo. Come insegna Ermete Trismegisto, l'Intelletto deriva dalla sostanza di Dio [...]. Nell'uomo, l'anima sembra abitata da un intelletto che è portatore del Verbo Divino o Logos [...]. Le analogie tra questa dottrina e la teologia giovannea sono abbastanza evidenti, ed è comprensibile che non pochi padri della Chiesa, per esempio Alberto Magno, abbiano potuto vedere nel Corpus Hermeticum il seme precristiano della dottrina del Logos. Per chi sa leggere, la dottrina dell'unità trascendente dell'Intelletto e già tutta presente nel prologo al Vangelo secondo Giovanni, e implicitamente affermata in tutte le rivelazioni della Sacra Scrittura, anche se il suo carattere esoterico resta necessariamente confermato dall'impossibilità di cogliere tale unita per mezzo dell'immaginazione o della stessa ragione, in quanto tale unità è la premessa e non l'oggetto della logica» (Alchimia, Guanda 1981, pag. 37-38). torna al testo ^

13- Anche se l'identificazione piena tra Dio e Intelletto non è sempre condivisa, in ogni caso rimane un punto fermo il carattere "divino" dell'Intelletto agente, e ciò è più che sufficiente per quanto stiamo considerando. La citazione inoltre offre il pretesto per ribadire che l'Averroismo non è certo una filosofia razionalistica nemica della religione, ed anzi in esso si evidenzia il fine realizzativo, in vista del quale si rende necessario il trascendimento dell'attaccamento alla forma individuale, attaccamento ancora presente in qualche modo nel Tomismo. Averroè esprime tale trascendimento con le note formule che fanno capo all'intelletto unico e separato: «Occorre quindi che vi siano, nella specie umana, alcuni individui i quali afferrino tale intelletto agente, coloro cioè che raggiungono la perfezione nelle scienze speculative» (De animae beatitudine, Venezia 1550, p. 356 a).
Per quanto riguarda Sigieri di Brabante, nel De anima intellectiva ha buon gioco nel sostenere, contro Tommaso, l'unicità dell'intelletto: esso infatti è immateriale, e lo stesso Tommaso aveva riconosciuto che, in seno ad una specie, causa della moltiplicazione numerica è la «materia signata quantitate». Ma l'intelletto è separato da ogni materia e quantità, quindi non soggetto a moltiplicazione. Il De anima intellectiva era stato scritto verso il 1274-'75, per rispondere alla nota opera antiaverroistica di Tommaso (De unitate intellectus contra averroistas). Dopo di che, l'attività di Sigieri vien meno, dovendo egli comparire, nel 1276, di fronte all'Inquisitore di Francia. torna al testo ^

14- Svolgendo una riflessione complementare a quella da noi proposta, H. Corbin, paragonando la Decima Intelligenza (v. Avicenna e gli Ismailiti) o Intelletto agente all'Angelo, ha scritto che lo stato contemplativo «che corrisponde all'intimità con l'Angelo che è l'Intelligenza attiva o agente, viene designato come intelletto santo ('aql qodsi). A1 suo culmine si trova il caso privilegiato dello spirito profetico» (Storia della filosofia islamica, Adelphi 1989, pag. 176). torna al testo ^

15- Su tale nozione, si veda comunque il testo del sufi Al Jîlî., citato alla nota n. 5.  torna al testo ^

Per quanto riguarda i citati testi di Samkara, sono stati utilizzati quelli pubblicati dalla casa editrice Âsram Vidyâ.

 

Paolo Scroccaro

 

 

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Articolo inserito in data: venerdì, 2 ottobre, 1999.

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