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Indice

Alcibiade Primo

di Platone

Sommario

1. Prologo

2. Discussione su ciò che è meglio per la Città

2.1. Impreparazione di Alcibiade come consigliere dell'Assemblea

2.2. Il meglio come oggetto della deliberazione dell'Assemblea

3. Discussione sulla giustizia

3.1. Ignoranza di Alcibiade e del popolo riguardo alla giustizia

3.2. Osservazioni sul metodo dialogico

4. Discussione sull'utile

4.1. Ignoranza di Alcibiade riguardo all'utile

4.2. Identità di giusto e utile sulla base della identità di giusto, bello, buono e utile

4.3. La peggiore ignoranza è credere di sapere quello che non si conosce

5. Intermezzo. Necessità della "cura di se stessi" per essere veri uomini politici

5.1. Ignoranza di Pericle

5.2. Errore di Alcibiade, che crede di avere come rivali degli Ateniesi

5.3. I veri rivali di Alcibiade sono i re degli Spartani e dei Persiani

5.4. Nobiltà ed educazione, doti e ricchezze dei re degli Spartani e dei Persiani

6. Indagine sui compiti dell'uomo politico

6.1. Ricerca di ciò che rende migliori e più capaci di comandare nella Città

6.2. La Città viene governata e salvata dall'amicizia e dalla concordia

7. L'uomo è la sua anima

7.1. Chiarificazione del significato del "prendersi cura di sé"

7.2. La "cura di sé" è la conoscenza di se stessi

7.3. L'essenza dell'uomo è l'anima, il corpo è il suo strumento

7.4. Modi errati di "curarsi di se stessi"

7.5. Amare un uomo è amare la sua anima, non il suo corpo

7.6. Per conoscere noi stessi dobbiamo guardare al divino che è in noi

7.7. Solo chi conosce se stesso è giusto e temperante e può governare la Città

8. Conclusioni

1. Prologo

[Steph., 1, p. 103 A]

SOCRATE - Caro figlio di Clinia, penso che tu sia stupito: soltanto io, che sono stato il primo ad amarti, non ti abbandono, dopo che gli altri ti hanno lasciato. Per di più, mentre gli altri, per tanti anni, ti hanno importunato con i loro discorsi, io, invece non ti ho nemmeno rivolto la parola. In verità, ciò non è stato provocato da una causa umana, bensì da un divieto divino1, della cui potenza ti accorgerai anche più avanti. Ma ora, poiché [B] tale divieto non mi ostacola più sono venuto da te e spero che anche in futuro esso non me lo impedisca. Dunque, in questo tempo, osservando come ti comportavi con i tuoi amanti, ho fatto le seguenti considerazioni: benché fossero molti e alteri, sono fuggiti tutti via da te, sopraffatti dalla tua superbia. Desidero proprio chiarire il motivo per cui [104 A] sei superbo. Tu sostieni di non aver bisogno di nessuno: le tue risorse, infatti, sono talmente grandi, che non manchi di nulla, a partire dal corpo fino all'anima. Innanzi tutto, tu pensi di essere il più bello e il più grande (e in questo, per il vero, è chiaro a tutti che non ti sbagli); in secondo luogo, ritieni di appartenere alla stirpe più potente della tua Città, che è a sua volta, la maggiore tra quelle elleniche e di avere qui, per parte di padre, [B] amici e parenti, molto numerosi e nobili, che ti aiuterebbero se avessi bisogno di qualcosa, mentre quelli per parte di madre non sarebbero affatto né peggiori né inferiori ad essi. Tuttavia, tu pensi che ti conferisca una potenza maggiore di tutto quello che ho ricordato, Pericle2 figlio di Santippo, che tuo padre lasciò come tutore a te e a tuo fratello. E questi può fare ciò che vuole non solo nella nostra Città, bensì in tutta l'Ellade e presso molti grandi popoli barbari. Poi aggiungerò anche che sei da annoverare [C] tra i ricchi: tuttavia, mi sembra che di questo tu ti inorgoglisca assai di meno. Insuperbito da tutte queste doti, hai preso il sopravvento sui tuoi amanti e quelli essendoti inferiori, si sono lasciati dominare da te: anche questo non ti è sfuggito. Perciò, so bene che ti chiedi stupito che cosa mai abbia in mente io, che non rinunzio al tuo amore e in che cosa speri nel mio persistere mentre gli altri se ne sono andati.

ALCIBIADE - Forse, Socrate, non sai [D] di avermi preceduto di poco. Infatti, avevo proprio in mente, avvicinatomi per primo, di chiederti che cosa volessi e a che cosa mirassi importunandomi, essendomi sempre vicino nel modo più premuroso, ovunque fossi. Davvero, mi chiedo, stupito, perché tu agisca così: mi piacerebbe proprio saperlo.

S. - Mi ascolterai benevolmente se, come affermi, desideri sapere che cosa io abbia in animo: allora parlerò, sicuro di avere un interlocutore paziente.

A. - Senza dubbio: ebbene, parla. [E]

S. - Sta' attento, allora: non ci sarebbe nulla di strano se come ho incominciato con fatica allo stesso modo, poi, fosse difficile che smettessi.

A. - Caro Socrate, parla: ti ascolterò.

S. - Sarebbe ora di parlare. È certamente difficile per un amante rivolgersi ad un uomo che non si lascia vincere da chi lo ama, però, si deve avere ugualmente il coraggio di dire ciò che si pensa. Difatti, o Alcibiade, se ti avessi visto appagato da quello che ho appena ricordato e convinto di dover passare la vita accontentandoti di ciò, [105 A] già da lungo tempo avrei smesso di amarti, ne sono certo. Invece, ti mostrerò che altri sono i tuoi intenti, e da questo capirai che ho continuamente rivolto la mia attenzione a te. Mi sembra che, se un dio ti dicesse: "O Alcibiade preferisci vivere con ciò che possiedi ora, oppure morire subito, se non ti sarà possibile procurartene di più?", sceglieresti di morire. Ma ora ti dirò io con quale speranza vivi. Tu ritieni che, non appena ti presenterai al popolo [B] (e questo avverrà entro pochi giorni), dimostrerai agli Ateniesi di meritare una stima maggiore di quella che ebbero per Pericle e per tutti gli altri politici mai esistiti. Inoltre, pensi, dopo aver mostrato questo, di diventare il più potente della Città, e, di conseguenza, anche presso gli altri Greci, e non solo tra di essi, ma anche tra i barbari che abitano nel nostro stesso continente. E se questo stesso dio ti dicesse poi che [C] devi comandare in Europa, mentre non ti sarà permesso di passare in Asia né di occuparti di ciò che accade là, non mi sembra che tu voglia vivere nemmeno accontentandoti di questo, senza poter riempire tutto, per così dire, del tuo nome e della tua potenza. A mio parere, tu pensi che, ad eccezione di Ciro e di Serse3, non vi sia stato nessuno meritevole di considerazione. Che la tua speranza sia riposta in quanto ho detto è per me una certezza, non una congettura. Forse, potresti domandarmi, sapendo che io dico il vero: "Che rapporto c'è, Socrate, tra questo e quanto affermavi prima, [D] dicendo di voler chiarire per quale motivo non mi avessi abbandonato?". Ti risponderò, caro figlio di Clinia e Dinomache. È impossibile che tu porti a compimento tutti questi tuoi intenti senza di me: penso proprio di avere un potere tanto grande sui tuoi affari e su di te. Ritengo che, appunto per questo, prima il dio non mi permettesse di parlare con te: e, così, ho atteso che me lo consentisse. Come tu, infatti, [E] speri di mostrare alla Città di meritare la più alta considerazione, e, di conseguenza, di poter fare subito quello che vuoi, così anch'io spero di acquistare presso di te il massimo potere, dopo averti dimostrato di essere del tutto degno della tua stima, e che non vi è né tutore, né parente, né alcun altro in grado di darti la potenza che desideri, all'infuori di me, certo con l'aiuto del dio. Credo che fino a quando eri più giovane e prima che nutrissi una speranza così grande, il dio non mi concedesse di parlare con te, perché non [106 A] discutessi invano. Ora, invece, me l'ha permesso, perché sei disposto ad ascoltarmi.

A. - O Socrate, adesso, dal momento in cui hai incominciato a parlare, mi sembri più strano di quando mi seguivi in silenzio: eppure, anche allora mi apparivi tale. A quanto pare, hai già deciso che cosa io pensi o meno; se non lo ammettessi, non mi rimarrebbe altro per persuaderti. Va bene, ma se davvero fossero questi i miei propositi, come mai con te sarebbero attuabili e senza di te no? Come si spiega? [B]

S. - Mi chiedi, dunque, se intendo fare qualche lungo discorso4, di quelli che sei solito ascoltare? Il mio non è di tale tipo: tuttavia, credo di poterti dimostrare ciò che ho affermato, se solo mi vuoi dare un piccolo aiuto.

A. - Se l'aiuto di cui tu parli non è difficile, te lo concedo volentieri.

S. - Ti sembra, forse, difficile rispondere alle domande?

A. - Non è difficile.

S. - Allora, rispondi.

A. - E tu domanda.

S. - Ti interrogherò, dunque, come se tu avessi veramente gli intenti che ti attribuisco? [C]

A. - Sia pure così, se vuoi: desidero sapere che cosa mi dirai.

2. Discussione su ciò che è meglio per la Città

2.1. Impreparazione di Alcibiade come consigliere dell'Assemblea

S. - Vediamo: tu sei intenzionato, come affermavo, a presentarti fra poco agli Ateniesi, per dar loro consigli. Se, dunque, mentre stai salendo sulla tribuna, ti raggiungessi chiedendoti: "O Alcibiade, dal momento che ti levi per dare consiglio: su che cosa gli Ateniesi intendono deliberare? Forse su oggetti che tu conosci meglio di loro?", che cosa mi risponderesti? [D]

A. - Senz'altro risponderei: "Su argomenti che conosco meglio di loro".

S. - Dunque, su ciò di cui ti trovi a conoscenza sei un buon consigliere.

A. - E come no?

S. - Forse, tu conosci soltanto quello che hai imparato da altri, o ciò che hai trovato tu stesso?

A. - E che cos'altro dovrei sapere?

S. - E possibile che tu abbia appreso da altri o abbia scoperto qualcosa senza volerlo imparare né ricercare da te?

A. - Non è possibile.

S. - E allora? Non hai mai desiderato cercare o imparare quello che credevi di sapere?

A. - Certamente no. [E]

S. - Perciò, vi è stato un tempo in cui non sapevi le cose che ti trovi a conoscere adesso?

A. - Necessariamente.

S. - Ma quello che hai appreso lo conosco press'a poco anch'io: comunque, se mi è sfuggito qualcosa, dimmelo. Tu, infatti, hai imparato, per quel che ricordo, a leggere e scrivere, a suonare la cetra e a lottare, mentre non hai voluto apprendere a suonare il flauto5. Questo è ciò che sai, a meno che tu non abbia imparato qualcosa che mi sia sfuggito. Ma avresti dovuto farlo, penso, senza uscire di casa ne di notte né di giorno.

A. - Non ho frequentato altri che questi. [107 A]

S. - Forse, dunque, quando gli Ateniesi delibereranno su come si debbano scrivere correttamente le lettere dell'alfabeto, ti alzerai a dar loro consiglio?

A. - Per Zeus, certamente no.

S. - E, invece quando delibereranno sull'arte della lira?

A. - Per nulla affatto.

S. - E non sono nemmeno soliti deliberare sulla lotta nell'Assemblea.

A. - No, in effetti.

S. - Ma allora, quando deliberano, di che cosa si tratta? Sicuramente non di costruzioni.

A. - No di certo.

S. - Difatti, un architetto darà su questo consigli migliori dei tuoi. [B]

A. - Sì.

S. - E non deliberano nemmeno sulla mantica?6

A. - No.

S. - Perché un indovino riuscirà meglio di te.

A. - Sì.

S. - Sia pure piccolo o grande, bello o brutto, nobile o di oscuri natali.

A. - E come no?

S. - Penso, infatti, che il consigliare spetti a chi conosce e non a chi è ricco.

A. - Come potrebbe essere altrimenti?

S. - Ma che il consigliere sia povero o ricco non interesserà per nulla agli Ateniesi, quando delibereranno [C] intorno alla salute pubblica: vorranno, invece, che sia un medico.

A. - E a buon diritto.

S. - Pertanto, di che cosa si dovranno occupare, perché tu ti levi a dare consiglio con cognizione di causa?

A. - Dovranno deliberare sui propri affari, o Socrate.

S. - Ti riferisci alle costruzioni navali, quando si decide quali navi debbano essere fabbricate?

A. - Certamente no, Socrate.

S. - Penso che dipenda dal fatto che non sai costruire navi. È questa la causa, oppure un'altra?

A. - No, è proprio questa. [D]

S. - Ma, allora quali sono gli affari sui quali essi deliberano, cui tu fai riferimento?

A. - Si tratta della guerra o Socrate, o della pace, o di qualche altra questione pubblica.

2.2. Il meglio come oggetto della deliberazione dell'Assemblea

S. - Intendi dire, probabilmente, quando decidono con chi si debba fare la pace e contro chi combattere e in che modo?

A. - Sì.

S. - E non si deve, forse, farla con quelli con cui questo è meglio?

A. - Sì. [E]

S. - E quando è meglio?

A. - Senz'altro.

S. - E nel tempo migliore?

A. - Sì.

S. - Se, dunque, gli Ateniesi deliberassero con chi si debba fare la lotta e con chi il pugilato e in che modo, chi darebbe consigli migliori: tu, oppure il maestro di ginnastica?

A. - Senz'altro, il maestro di ginnastica.

S. - Mi puoi dunque dire a che cosa mirerebbe il maestro di ginnastica nel consigliare con chi si debba fare la lotta e con chi no, e quando e in che modo? Mi riferisco a questo si deve o no lottare con quelli con cui è meglio farlo?

A. - Sì. [108 A]

S. - E tanto a lungo quanto è meglio?

A. - Senz'altro.

S. - Forse, anche quando è meglio?

A. - Sì.

S. - Ma anche colui che canta non deve forse accordare la cetra e il passo con il canto?

A. - Lo deve fare senz'altro.

S. - E, probabilmente, quando è meglio?

A. - Sì.

S. - E per tanto, quanto è meglio?

A. - Lo affermo.

S. - Ebbene, poiché hai attribuito il termine meglio [B] sia all'accordare la cetra col canto, sia al fare la lotta: che cosa intendi per "meglio" nel suonare la cetra? Mentre io nel caso del fare la lotta intendo come meglio il lottare "ginnicamente", tu come denomini l'altro caso?

A. - Non capisco.

S. - Cerca almeno di imitarmi. Io, infatti, ho risposto, all'incirca, che il meglio è ciò che è del tutto corretto, ed è tale ciò che viene prodotto secondo l'arte. Oppure no?

A. - Sì.

S. - E l'arte a cui ci riferivamo non era la ginnastica?

A. - Come no? [C]

S. - Sostenevo che il meglio nel fare la lotta è ciò che è ginnico.

A. - Dicevi proprio questo.

S. - E non era forse esatto?

A. - Mi sembra di sì.

S. - Allora, dato che sarebbe opportuno anche per te saper discutere in modo conveniente, dimmi, prima di tutto, qual è l'arte da cui dipendono il suonare la cetra, il cantare e il muovere il passo correttamente? Come viene chiamata nel suo insieme? Non sai ancora rispondere?

A. - No di certo.

S. - Prova, invece, in questo modo: quali sono le dee protettrici di quest'arte?7

A. - Intendi dire le Muse, Socrate? [D]

S. - Appunto. Fa' attenzione: quale nome riceve da esse l'arte?

A. - Mi sembra che tu parli della musica.

S. - Giusto. Che cos'è, dunque, corretto secondo la musica? Prima ti ho descritto ciò che è corretto secondo l'arte della ginnastica, ora vorrei sapere che cosa affermi a proposito di quest'altra arte: come dovrà essere?

A. - Musicale, penso.

S. - Dici bene. Continua, dunque: come definisci il meglio nel combattere e nel fare la pace? [E] Come sopra per ciascun'arte hai determinato ciò che è meglio, perché più musicale e, nel secondo caso, perché più ginnico, prova anche adesso a dire che cosa sia il meglio.

A. - Non ne sono davvero capace.

S. - Ma è proprio una vergogna! Se qualcuno, mentre parli e dai consigli sul vettovagliamento, mostrando che questo tipo è meglio di quello e adesso e in questa misura, ti chiedesse: "Che cosa intendi per meglio, Alcibiade?", tu, riguardo a questo, sapresti dire che si tratta di ciò che è più salutare, anche se non pretendi di essere un medico. Invece, se venissi interrogato riguardo a quello [109 A] che presumi di sapere e su cui pretendi di alzarti a dar consiglio, come uno che lo conosca bene, non ti vergogneresti di non saper rispondere? O non ti sembra vergognoso?

A. - Lo ammetto.

S. - Allora fa attenzione e cerca di dirmi a che cosa miri il meglio nel fare la pace e nel combattere con quelli con cui si deve.

A. - Per quanto ci rifletta, non riesco a trovarlo.

S. - Non sai, quando facciamo la guerra, di che cosa ci accusiamo a vicenda nel metterci a combattere e come denominiamo questo? [B]

A. - Certo. Diciamo di essere ingannati o di subire violenza o di essere defraudati.

S. - Vediamo: come diciamo di subire ciascuna di queste cose? Cerca di spiegare quale differenza vi sia tra l'una e l'altra.

A. - Forse, ti riferisci, Socrate, al fatto che siano in modo giusto oppure ingiusto?

S. - Proprio così.

A. - Ma questa è una differenza in tutto e per tutto.

S. - E allora? Agli Ateniesi, tu contro chi consiglierai di combattere? Contro chi commette ingiustizie o contro chi opera secondo giustizia? [C]

A. - Mi rivolgi una domanda insidiosa: infatti, se anche uno pensasse che si debba combattere contro chi agisce secondo giustizia, non lo ammetterebbe di certo.

S. - Perché questo, come sembra, non è conforme alle leggi.

A. - No di certo: e non mi sembra neppure bello.

S. - Pertanto, nei tuoi discorsi anche tu avrai presente ciò che è giusto ?

A. - É necessario.

S. - Ma, allora, il meglio su cui ti interrogavo poco fa riguardo al combattere o no, e con chi lo si debba fare e con chi no, e quando sia opportuno o meno, sarà quello che è più giusto? Oppure no?

A. - Sembra così. [D]

3. Discussione sulla giustizia

3.1. Ignoranza di Alcibiade e del popolo riguardo alla giustizia

S. - Ma, allora, caro Alcibiade, come stanno le cose? Forse non ti accorgi della tua ignoranza su questo, oppure mi è sfuggito che lo hai imparato frequentando un maestro, che ti ha insegnato a distinguere quello che è più giusto da quello che è più ingiusto? E chi è costui? Dillo anche a me, perché, presentato a lui, anch'io diventi suo discepolo.

A. - Tu ti prendi gioco di me, Socrate.

S. - No, per Zeus, che presiede alla nostra amicizia, per cui non vorrei assolutamente spergiurare. Però, se hai un tale maestro, dimmi chi è. [E]

A. - E se non lo avessi? Non pensi che possa aver appreso in altro modo che cosa sia giusto e che cosa ingiusto?

S. - Senz'altro, se lo avessi trovato tu.

A. - E non pensi che abbia potuto trovarlo?

S. - Certamente, se lo avessi cercato.

A. - E non credi che lo abbia cercato?

S. - Sicuramente, se avessi creduto di non saperlo.

A. - E non ci fu un tempo in cui mi sono trovato in tale condizione?

S. - Dici bene. Mi puoi, allora, indicare quale fu il tempo [110 A] in cui non ritenevi di sapere che cosa sia il giusto e l'ingiusto? Ebbene: l'anno scorso lo cercavi e credevi di non conoscerlo? O lo pensavi? Rispondimi secondo verità, perché il nostro dialogo non sia vano.

A. - Pensavo proprio di saperlo.

S. - E tre anni fa, e quattro e cinque non era così?

A. - Senz'altro.

S. - Ma prima di allora tu eri un fanciullo, non è vero?

A. - Sì.

S. - So bene che, allora, credevi di conoscerlo.

A. - Tu come fai a saperlo? [B]

S. - Perché spesso ti ho udito, quando eri fanciullo a scuola o altrove, e giocavi a dadi8 o a qualcos'altro. Tu non avevi nessun dubbio riguardo a ciò che è giusto e ingiusto, ma dicevi ad alta voce e con sicurezza riguardo a chiunque tra i tuoi compagni che era cattivo e ingiusto e ti faceva torto. Non dico la verità?

A. - Ma che cosa avrei dovuto fare, Socrate, quando mi si faceva un'ingiustizia?

S. - Mi domandi che cosa avresti dovuto fare quando ignoravi se tu stessi subendo ingiustizia o meno? [C]

A. - Per Zeus, non lo ignoravo affatto, ma sapevo bene di subire ingiustizia.

S. - Pertanto, anche da fanciullo pensavi di sapere, come sembra, che cosa sia giusto e che cosa sia ingiusto.

A. - Senz'altro; e lo sapevo per davvero.

S. - Quando l'hai scoperto? Certamente, non quando credevi di saperlo già.

A. - No davvero.

S. - Allora, quando credevi di ignorarlo? Pensaci: questo tempo, non lo troverai affatto.

A. - Per Zeus, o Socrate non so davvero che cosa dire. [D]

S. - Dunque, non conosci questo per averlo trovato.

A. - Non mi sembra proprio.

S. - Eppure, poco fa hai detto di saperlo senza averlo imparato. Se, tuttavia, non l'hai né scoperto né imparato, come fai a saperlo e da dove l'hai saputo?

A. - Però, forse, non ti ho risposto correttamente, dicendoti di saperlo per averlo trovato da me stesso.

S. - Com'è andata, invece?

A. - L'ho imparato anch'io come gli altri.

S. - Siamo tornati di nuovo allo stesso punto. Da chi? Dillo anche a me! [E]

A. - Dalla maggior parte della gente.

S. - Non ti rifugi certo presso maestri seri, riferendoti ai più.

A. - E perché? Non sono capaci di insegnare?

S. - Nemmeno le mosse per vincere o no nel gioco del tavoliere9; eppure, questo mi sembra meno importante di ciò che è giusto. O no? Tu non sei dello stesso parere?

A. - Sì.

S. - Se, allora, non sono in grado di insegnare le cose meno importanti, come faranno con quelle più serie?

A. - Lo penso anch'io. Però, sono capaci di insegnare cose più importanti del gioco del tavoliere.

S. - E quali sono? [111 A]

A. - Da questi, per esempio, ho imparato a parlar greco, ma non saprei dire chi fosse mio maestro senza fare riferimento proprio a quelli che tu dici non essere maestri seri.

S. - Mio caro, di questo certamente, i più sono ottimi maestri e se ne potrebbe giustamente lodare l'insegnamento.

A. - Perché mai?

S. - Perché, in questo campo, sono in possesso di tutto ciò che è necessario ad un bravo maestro.

A. - Che cosa intendi dire?

S. - Non sai che chi vuole insegnare qualcosa [B] deve conoscerlo per primo? Oppure no?

A. - Come no?

S. - E quelli che sanno devono essere d'accordo fra loro senza alcun dissenso?

A. - Sì.

S. - E dirai che sanno ciò su cui sono in disaccordo?

A. - Per nulla affatto.

S. - Potrebbero, dunque, insegnare quello?

A. - Assolutamente no.

S. - Allora, ti sembra che i più siano in disaccordo nel distinguere una pietra da un legno? Se li interrogassi, non risponderebbero concordi, allo stesso modo [C] e, volendo prendere una pietra o un legno, non si rivolgerebbero allo stesso oggetto? Ed è così anche per tutti gli oggetti dello stesso tipo: mi pare, infatti, di capire che tu con parlare in greco ti riferisca a questo. Oppure no?

A. - Sì.

S. - Dunque, su ciò, come s'è detto, i singoli in privato sono tutti d'accordo tra di loro. Invece, in pubblico le Città non sono in contrasto tra loro, intendendo le une una cosa, le altre un'altra?

A. - No di certo.

S. - Pertanto, è naturale che essi siano dei buoni maestri di questo [D]

A. - Sì.

S. - Allora, se volessimo aiutare qualcuno ad impararlo, faremmo bene a mandarlo alla scuola dei più?

A. - Certamente.

S. -Tuttavia, se volessimo sapere non soltanto quali siano uomini e quali cavalli, ma anche quali tra essi siano adatti alla corsa e quali no sarebbero ancora i più quelli capaci di insegnarlo?

A. - Senz'altro no.

S. - Ma vederli in disaccordo non proverebbe per te in modo sufficiente [E] che sono cattivi maestri a questo riguardo?

A. - Penso di sì.

S. - E allora, sugli uomini e sugli atti giusti e ingiusti, [112 A] ti sembra che i più siano d'accordo con sé e tra loro?

A. - Senza dubbio no, per Zeus, o Socrate.

S. - E che, anzi, siano in disaccordo soprattutto su questo?

A. - Esattamente.

S. - Perciò, credo che tu non abbia mai visto né udito che gli uomini siano talmente in disaccordo su ciò che è salutare o no, da combattersi per questo e uccidersi a vicenda.

A. - Senz'altro no.

S. - Di dispute riguardo a ciò che è giusto e ingiusto [B] so che, anche se non ne hai viste, certo hai sentito parlare sia da molti altri, sia da Omero, dato che hai udito l'Odissea e l'Iliade.

A. - Sicuramente, Socrate.

S. - E questi poemi non trattano di un disaccordo su ciò che è giusto e ingiusto?

A. - Sì.

S. - E da questo contrasto trassero origine i combattimenti e le morti sia per gli Achei sia per i Troiani loro nemici, come anche per i pretendenti di Penelope e Ulisse? [C]

A. - Dici la verità.

S. - Penso che sia così anche per gli Ateniesi e gli Spartani e i Beoti morti a Tanagra10, come più tardi per quelli di Cheronea11, fra i quali cadde tuo padre Clinia. Il disaccordo che provocò quelle morti e quei combattimenti non riguardava nient'altro che il giusto e l'ingiusto. Non è così?

A. - Sì, è vero.

S. - Allora potremmo dire che essi conoscano ciò su cui sono così in disaccordo da procurarsi, combattendosi [D] a vicenda, i peggiori danni?

A. - Non mi sembra proprio.

S. - Pertanto, ti riferisci a maestri tali che, come ammetti, non sanno?

A. - Sembra.

S. - Com'è, dunque, possibile che tu conosca ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, se sei così incerto a questo proposito, e non sembra nemmeno che tu lo abbia imparato da nessuno né che tu stesso lo abbia trovato?

A. - Da quello che dici non sembra possibile. [E]

3.2. Osservazioni sul metodo dialogico

S. - Non vedi, o Alcibiade, che anche questa volta hai detto male?

A. - A che proposito?

S. - Perché affermi che sia io a parlare di questo.

A. - E come? Non sei tu ad affermare che io non so nulla del giusto e dell'ingiusto?

S. - Per nulla affatto.

A. - Allora, sono io?

S. - Sì.

A. - Ma come?

S. - Lo saprai in questo modo: se ti domandassi quale sia il numero maggiore fra l'uno e il due tu non diresti che è il due?

A. - Certamente.

S. - Di quanto?

A. - Di un'unità.

S. - Ma allora, chi di noi due afferma che il due è maggiore del l'uno?

A. - Io.

S. - Forse io ero l'interrogante, [113 A] tu quello che rispondeva?

A. - Sì.

S. - Su questo, allora, chi risulta essere colui che afferma? Io che interrogo o tu che rispondi?

A. - Io.

S. -E se ti chiedessi da quali lettere è costituito il nome di Socrate e tu rispondessi, chi sarebbe colui che afferma?

A. - Io.

S. - Ebbene, dimmi in una parola: quando vi siano una domanda ed una risposta, chi è colui che afferma, chi interroga, oppure chi risponde?

A. - Mi sembra, Socrate che sia chi risponde. [B]

S. - Allora, poco fa non so no stato sempre io ad interrogare?

A. - Sì.

S. - E tu invece eri colui che rispondeva?

A. - Senz'altro.

S. - Ma allora, chi di noi due ha affermato ciò che è stato detto?

A. - È chiaro, Socrate, da quanto abbiamo convenuto, che sono stato io.12

S. - Dunque, riguardo al giusto e all'ingiusto si è detto che il bell'Alcibiade, figlio di Clinia, non sapeva nulla, benché credesse di conoscerlo ed intendesse presentarsi all'assemblea per consigliare gli Ateniesi su ciò che ignorava? Non era forse così? [C]

A. - Pare di sì.

S. - In questo caso, Alcibiade, è appropriato ciò che afferma Euripide: può darsi che tu abbia udito questo da te e non da me13, e che non sia io a dirlo, bensì tu, che mi accusi a torto. Tuttavia, fai bene ad affermarlo, perché hai in mente, carissimo, di intraprendere un'impresa folle, ossia di insegnare quello che non sai, pur avendo trascurato di impararlo. [D]

4. Discussione sull'utile

4.1. Ignoranza di Alcibiade riguardo all'utile

A. - Tuttavia, Socrate, penso che gli Ateniesi e gli altri Greci deliberino raramente su ciò che è più giusto o più ingiusto. Essi ritengono, infatti, che tali questioni siano chiare: perciò le trascurano e considerano che cosa sia più utile fare. Non credo davvero che il giusto e l'utile siano la stessa cosa,

anzi, mentre a molti è stato utile commettere grandi ingiustizie, per altri, mi pare, aver compiuto azioni giuste non è stato giovevole.

S. - Ma come, se il giusto e l'utile sono così radicalmente diversi [E] tu pensi di sapere che cosa sia utile agli uomini e perché?

A. - E che cosa me l'impedisce, Socrate? A meno che tu non mi chieda di nuovo da chi lo abbia imparato o come l'abbia trovato da me.

S. - Ecco come ti comporti. Se affermi qualcosa di inesatto ed è possibile dimostrarlo con lo stesso ragionamento di poco prima, allora pensi di dover ascoltare qualcosa di nuovo e altre argomentazioni, come se le precedenti fossero simili ad abiti consunti, che tu non voglia più indossare, a meno che non ti si presenti un'argomentazione pulita [114 A] e senza macchia. Ma io, messi da parte i tuoi tentativi di discussione, nondimeno ti chiederò di nuovo donde tu abbia imparato a conoscere l'utile e chi sia il tuo maestro: con una sola domanda, ti chiedo tutto ciò su cui ti avevo interrogato prima. Tuttavia, è chiaro che tornerai allo stesso punto e non giungerai a dimostrare di conoscere l'utile né per averlo trovato tu, né per averlo imparato Poiché, invece, fai lo sdegnoso e non vuoi più gustare volentieri lo stesso ragionamento, rinuncerò ad esaminare la tua conoscenza o meno di ciò che è utile agli Ateniesi. [B] Ma, perché non hai dimostrato se il giusto e l'utile sono identici, oppure no? Se vuoi, interrogami, come io faccio con te altrimenti, procedi pure nel ragionamento a modo tuo.

A. - Tuttavia, non so se sarei capace, Socrate, di svilupparlo davanti a te.

S. - Mio caro amico immagina che io sia l'Assemblea e il popolo: anche là tu dovrai persuadere ciascuno. Non è così?

A. - Sì.

S. - La stessa persona non sarà capace di persuadere, su ciò che conosce, uno solo e molti, [C] come il grammatico, quando si tratta di lettere, persuade sia uno sia molti?

A. - Sì.

S. - E anche riguardo ai numeri, la stessa persona persuaderà sia uno sia molti?

A. - Sì.

S. - E sarà colui che li conosce, ossia il matematico?

A. - Certamente.

S. - Di conseguenza anche tu, su quello di cui sei capace di persuadere molti, sei pure in grado di persuadere uno solo?

A. - Sembra.

S. - Si tratta, chiaramente di ciò che sai.

A. - Sì.

S. - E che differenza vi sarà fra colui che parla in mezzo al popolo e colui che discorre in una conversazione come la nostra, se non che l'uno persuade molti insieme [D] dello stesso tema di cui l'altro persuade ciascuno singolarmente?

A. - Pare.

S. - Ebbene, poiché sembra proprio della stessa persona persuadere sia molti sia uno solo, esercitati con me e cerca di mostrarmi che, talvolta, il giusto non è utile.

A. - Sei prepotente, Socrate!

S. - E adesso, con la prepotenza, intendo convincerti del contrario di quello su cui tu non vuoi persuadermi.

A. - Allora, parla!

S. -Devi soltanto rispondere alle domande. [E]

A. - Per nulla affatto: devi parlare tu.

S. - Come? Non vuoi essere del tutto convinto?

A. - Senz'altro.

S. - Ebbene, se tu stesso arrivassi ad affermare che le cose stanno così, saresti del tutto convinto?

A. - Mi sembra proprio.

S. - Allora, rispondi; e se tu non sentirai te stesso affermare che ciò che è giusto è anche utile, non credere ad un altro che te lo dica.

A. - No di certo. Però, devo rispondere: comunque, non penso di esser danneggiato da questo. [115 A]

4.2. Identità di giusto e utile sulla base della identità di giusto, bello, buono e utile

S. - Sei proprio un indovino. E dimmi: delle cose giuste, tu affermi che alcune sono utili, mentre altre no?

A. - Sì.

S. - E inoltre, tu pensi che alcune di esse siano belle, mentre le altre no?

A. - Che cosa intendi dire con questa domanda?

S. - Non ti è mai sembrato che qualcuno compisse azioni brutte, ma giuste?

A. - Non mi pare.

S. - Invece, tutto ciò che è giusto è anche bello?

A. - Sì.

S. - E allora, le cose belle sono forse tutte buone, oppure alcune sì, altre no?

A. - Secondo me, Socrate alcune delle cose belle sono cattive.

S. - E vi sono anche delle cose brutte, ma buone?

A. - Sì. [B]

S. - Probabilmente, ti riferisci ad esempi di questo tipo: molti, in guerra, avendo dato aiuto ad un compagno o ad un parente, hanno riportato ferite e sono morti, mentre quelli che non hanno prestato soccorso, pur dovendolo fare, ne sono usciti sani e salvi?

A. - Esattamente.

S. - Allora, tu affermi che un tale aiuto è bello, come tentativo di salvare quelli che si dovevano soccorrere, e che questo è coraggio. Oppure no?

A. - Sì.

S. - Poi, però, lo consideri un male in riferimento ai morti e ai feriti,. Non pensi così?

A. - Sì. [C]

S. - Ma allora, altro è il coraggio, altro è la morte, o no?

A. - Certamente.

S. - Pertanto, il soccorrere gli amici non è bello e brutto a partire dallo stesso punto di vista?

A. - Sembra proprio di no.

S. - Considera, allora, se un'azione bella sia anche buona, come in questo caso. In riferimento al coraggio, ammetti che il prestare aiuto sia bello? Esamina, ora, il coraggio in se stesso: è buono o cattivo? Procedi nell'osservazione in questo modo: che cosa preferiresti avere, beni o mali?

A. - Beni. [D]

S. - E i più grandi di tutti: non e cosi?

A. - Sì.

S. - E vorresti esserne privato il meno possibile?

A. - Come no?

S. - Che cosa dici del coraggio? A quale prezzo accetteresti di esserne privato?

A. - Non accetterei nemmeno di vivere, se dovessi essere vile.

S. - Pertanto, la viltà ti sembra essere il male estremo?

A. - Per me, sì.

S. - Come il morire, a quanto pare.

A. - Lo affermo.

S. - Dunque, vita e coraggio sono il contrario della morte e della viltà?

A. - Sì. [E]

S. - E tu vorresti assolutamente avere le prime, ma non le seconde?

A. - Sì.

S. - Forse, perché consideri le une i maggiori beni, le altre i maggiori mali?

A. - Esattamente.

S. - E fra le cose ottime annoveri il coraggio, fra le pessime la morte14?

A. - Penso di sì.

S. - Allora, il prestar aiuto in guerra agli amici, per il fatto che è bello, in quanto è un'azione di bene, ossia il coraggio, lo hai definito bello?

A. - Mi sembra.

S. - Ma è invece cattivo, in quanto è un atto di male, ossia produce morte?

A. - Sì.

S. - Allora è giusto definire ogni azione così: se la dici cattiva in quanto produce un male, [116 A] la devi chiamare buona in quanto realizza un bene?

A. - Mi pare che sia così.

S. - Dunque, in quanto buona è bella, mentre in quanto cattiva è brutta?

A. - Sì.

S. - Pertanto, mentre affermi che l'aiuto dato in guerra agli amici è bello, ma cattivo, non fai nulla di diverso dal dire che è buono, ma cattivo.

A. - Mi sembra che quello che dici sia vero, o Socrate.

S. - Nessuna, dunque, delle azioni belle, in quanto bella, è cattiva mentre nessuna di quelle brutte, in quanto tale, è buona. [B]

A. - Non sembra.

S. - Esamina ancora il problema da questo punto di vista: chi compie un'azione bella, non vive anche bene?15

A. - Sì.

S. - E coloro che vivono bene non sono felici?

A. - Come dubitarne?

S. - E non sono felici per il possesso del bene?

A. - Perfettamente.

S. - E lo possiedono per il loro vivere buono e bello?

A. - Sì.

S. - Allora, il vivere bene è buono?

A. - Come no?

S. - E una buona vita è bella?

A. - Sì. [C]

S. - Di nuovo, dunque, bello e buono ci appaiono identici.

A. - Evidentemente.

S. - Pertanto quello che troviamo bello lo scopriremo anche buono, secondo questo ragionamento.

A. - Necessariamente.

S. - Come? Ciò che è buono è utile, o no?

A. - È utile.

S. - Riguardo al giusto, ti ricordi come eravamo rimasti d'accordo?

A. - Avevamo convenuto, credo, che chi compie delle azioni giuste realizza necessariamente delle azioni belle.

S. - E che chi compie azioni belle, fa anche azioni buone?

A. - Sì. [D]

S. - E che le azioni buone sono utili?

A. - Sì.

S. - Le azioni giuste, quindi, o Alcibiade, sono utili.

A. - Sembra.

S. - Ebbene, questo non sei tu ad affermarlo, mentre io ti interrogo?

A. - Sono io, come sembra.

S. - Se, dunque, uno si alzerà per dar consigli agli Ateniesi o ai Peparetii16, pensando di conoscere il giusto e l'ingiusto, ma dichiarerà che ciò che è giusto talvolta è male, che cos'altro potrai fare se non ridere di lui, dato che anche tu affermi [E] l'identità di giusto e utile?

4.3. La peggiore ignoranza è credere di sapere quello che non si conosce, soprattutto se si tratta della giustizia

A. - Ma per gli dèi, Socrate, non so neppure io quel che dico e, addirittura, mi sento in uno stato strano: quando mi interroghi, mi sembra che le cose stiano ora in un modo, ora in un altro.

S. - E ignori, caro Alcibiade, che cosa sia questo stato?

A. - Nel modo più assoluto.

S. - Se, però, qualcuno ti chiedesse se hai due o tre occhi, e due o quattro mani o qualche cosa di simile, credi che gli daresti ora una risposta, ora un'altra, oppure sempre la stessa? [117A]

A. - Oramai incomincio a diffidare di me stesso, ma penso che risponderei nello stesso modo.

S. - Forse, perché lo sai? Non è questo il motivo?

A. - Penso di sì.

S. - Allora, ciò su cui, senza volerlo, dai risposte contraddittorie, è chiaro che non lo conosci.

A. - È probabile.

S. - Ebbene tu affermi anche riguardo al giusto e all'ingiusto, al bello e al brutto, al buono e al cattivo, all'utile e al suo contrario, di essere confuso nel rispondere? Non è chiaro che ti smarrisci proprio perché non li conosci? [B]

A. - Mi sembra di sì.

S. - Non è forse così: quando non si conosce qualcosa, l'anima cade necessariamente in errore riguardo ad essa?

A. - Come no?

S. - Ebbene: sai come salire in cielo?

A. - Per Zeus, no di certo.

S. - E su ciò la tua opinione erra?

A. - Per nulla affatto.

S. - Ne conosci il motivo, o te lo devo dire io?

A. - Dimmelo.

S. - Perché, o caro, ignorandolo, non credi di conoscerlo. [C]

A. - Che cosa intendi affermare con ciò?

S. - Considera anche tu questo con me. Su quello che non conosci, ma sai di non sapere, cadi forse in errore? Per esempio, sul modo di cucinare i cibi, tu sai con sicurezza di non sapere?

A. - Senz'altro.

S. - In tal caso pretendi di avere una tua opinione su come si debba cucinare e cadi in errore riguardo a questo, oppure ti rivolgi a chi lo sa?

A. - Faccio così.

S. - E se fossi su una nave, pretenderesti di decidere tu se [D] si debba muovere il timone in dentro o in fuori e, ignorandolo, cadresti in errore, oppure ti affideresti tranquillamente al pilota?

A. - Mi affiderei al pilota.

S. - Pertanto, non cadi in errore su ciò che non conosci, purché tu sappia di non saperlo?

A. - Non mi sembra.

S. - Non comprendi che anche gli errori nell'agire dipendono da questa ignoranza, ossia dal fatto che, non sapendo, si crede di sapere?

A. - E con questo, che cosa intendi dire?

S. - Non intraprendiamo un'azione quando pensiamo di sapere che cosa fare?

A. - Sì. [E]

S. - E chi non crede di sapere non si affida agli altri?

A. - Come no?

S. - Pertanto, tra coloro che non sanno, solo questi vivono senza commettere errori, dato che si affidano ad altri su ciò che ignorano?

A. - Sì.

S. - Chi sono, dunque, quelli che sbagliano? Non sono sicuramente quelli che sanno.

A. - Senz'altro no.

S. - Allora, poiché non sono né quelli che sanno né, tra gli ignoranti, quelli [118 A] che sanno di non sapere, quali altri potranno rimanere se non coloro che non sanno, ma credono di sapere?

A. - Non altri, ma questi.

S. - Pertanto, questa ignoranza è causa di mali ed è una biasimevole insipienza?

A. - Sì.

S. - E, forse, quando riguarda i valori più alti è ancor più dannosa e turpe?

A. - Lo è proprio.

S. - Pertanto, mi puoi presentare qualcosa più grande del giusto, del bello, del bene e dell'utile?

A. - Senz'altro no.

S. - Ma non è riguardo a questo che tu affermi di cadere in errore?

A. - Sì.

S. - E se cadi in errore, non è chiaro da quello che si è appena detto che [B] non solo ignori ciò che è più importante, ma anche che credi di conoscerlo, mentre non lo conosci?

A. - Temo che sia così.

5. Intermezzo. Necessità della "cura di se stessi" per essere veri uomini politici

5.1. Ignoranza di Pericle

S. - Ahimè, Alcibiade, in quale condizione ti trovi! Non ho il coraggio di definirla, ma comunque, dato che siamo soli, ne dobbiamo parlare. Tu vivi, mio caro, nella massima ignoranza, come dimostrano il nostro ragionamento e tu stesso, e per questo ti getti nella vita politica prima di esserti preparato ad essa. D'altra parte, in questa condizione non ti trovi soltanto tu, ma anche la maggior parte di coloro che si occupano [C] della Città, tranne pochi, fra cui, forse, il tuo tutore, Pericle.

A. - Si dice, Socrate, senza dubbio, che egli non sia divenuto sapiente da sé, bensì per aver vissuto con molti uomini saggi, come Pitoclide17 e Anassagora18. Anche ora, pur essendo così avanzato in età, sta in rapporto con Damone19 proprio per questo.

S. - Ebbene: hai mai visto un uomo esperto in qualsiasi cosa, incapace di rendere tale anche un altro? Per esempio, colui che ti ha insegnato a leggere e scrivere non era anch'egli esperto in questo e non ha reso tali te e chiunque altro abbia voluto? Non è così?

A. - Sì. [D]

S. - Per questo anche tu avendo imparato da lui, sarai in grado di insegnare ad un altro?

A. - Sì.

S. - E così anche il suonatore di cetra e il maestro di ginnastica?

A. - Senz'altro.

S. - È davvero una bella prova della effettiva conoscenza di qualcosa l'essere in grado di farla imparare ad un altro.

A. - Mi sembra di sì.

S. - Allora, mi puoi dire chi sia stato reso saggio da Pericle, a partire dai suoi figli? [E]

A. - Che cosa ti devo rispondere, Socrate, se i figli di Pericle sono due sciocchi20?

S. - E invece Clinia, tuo fratello?

A. - Perché parlare di Clinia, che è un pazzo?

S. - Dal momento che Clinia è un pazzo ed i figli di Pericle sono due sciocchi, per quale motivo ti trascura, mentre ti trovi in tale condizione? [119 A]

A. - Penso che faccia così perché non gli presto attenzione.

S. - Ma tra gli altri Ateniesi o gli stranieri, fammi il nome di uno, schiavo o libero, che debba al rapporto con Pericle l'essere diventato più saggio, come io ti potrei citare Pitodoro21, figlio di Isoloco e Callia22, figlio di Calliade, ciascuno dei quali, pagate cento mine a Zenone23, è divenuto sapiente e famoso.

A. - Per Zeus, non saprei chi nominare.

5.2. Errore di Alcibiade, che crede di avere come rivali degli Ateniesi

S. - Va bene. Allora, per quello che ti riguarda, che cosa pensi di fare? Intendi rimanere come sei, oppure applicarti in qualche modo? [B]

A. - Vediamolo insieme, Socrate. Per il resto, comprendo ciò che dici e sono d'accordo. Anche a me sembra che quelli che si occupano della Città, tranne pochi, siano senza educazione.

S. - E questo che cosa significa?

A. - Se fossero in qualche modo educati, occorrerebbe che chi si accinge ad affrontarli fosse preparato ed esercitato come gli atleti. Ora, invece, poiché anche questi sono entrati nella vita politica senza nessuna preparazione, che bisogno c'è di esercizio e formazione? [C] So bene che li supererò di gran lunga con le mie doti naturali.

S. - Ahimè, caro, che cosa hai detto! Com'è indegno della tua bellezza e delle altre tue doti!

A. - Perché e riguardo a che cosa dici questo?

S. - Sono dispiaciuto per te e per il mio amore.

A. - Ma perché? [D]

S. -Tu pensi di dover lottare con gli uomini della Città.

A. - E con chi, allora?

S. - È degno di un uomo che crede di essere di animo grande domandare questo?

A. - Come dici? Non è con questi che dovrò lottare?

S. - Anche se ti proponessi di guidare una trireme che sta per combattere, ti basterebbe essere il migliore dei tuoi compagni come pilota, oppure penseresti che questo sia, certo, indispensabile, ma che occorra, piuttosto, badare ai tuoi veri avversari e non ai tuoi compagni? Su costoro, infatti, devi risultare tanto superiore, [E] che non credano di potersi misurare con te, bensì, coscienti della propria inferiorità, diventino tuoi alleati contro i nemici, se veramente hai l'intenzione di compiere qualche bella impresa, degna di te e della Città.

A. - E proprio quello che ho in mente.

5.3. I veri rivali di Alcibiade sono i re degli Spartani e dei Persiani

S. - Allora, è proprio degno di te accontentarti di essere migliore dei tuoi soldati e non badare, piuttosto, ai comandanti dei nemici, per riuscire ad essi superiore osservandoli ed esercitando i tuoi sforzi nei loro confronti? [120 A]

A. - A chi ti riferisci, o Socrate?

S. - Non sai che la nostra Città è sempre in guerra, sia con gli Spartani, sia con il Gran Re24?

A. - Hai ragione.

S. - Pertanto, se hai in mente di essere il comandante di questa Città, sarà bene che tu pensi di doverti misurare con il re degli Spartani e dei Persiani?

A. - Può darsi che tu dica il vero.

S. - No, mio caro, ma devi badare a Midia25, l'allevatore di quaglie [B] e agli altri della stessa specie, che si buttano nell'attività politica, pur avendo ancora nell'animo, come direbbero le donne, capelli da schiavo26, per la loro rozzezza, senza essersene liberati. Essi, senza sapere nemmeno il greco, sono venuti per adulare la Città, non per governarla. A questi che ti segnalo devi badare, trascurando te stesso, senza imparare quello che si deve apprendere per affrontare una tale lotta, senza esercitarti in quello che richiede allenamento, [C] senza preparare tutto ciò che occorre: così devi affrontare il governo della Città.

A. - Comunque, Socrate, anche se mi sembra che tu dica la verità credo, tuttavia, che i generali degli Spartani e il re dei Persiani non siano per nulla diversi dagli altri.

S. - Mio ottimo amico, esamina, invece, il valore di questa tua opinione.

A. - In riferimento a che cosa?

S. - Innanzi tutto, ritieni che ti prenderesti maggiormente cura di te stesso [D] se li temessi pensando che siano terribili, oppure no?

A. - È chiaro che ciò avverrebbe maggiormente se li considerassi terribili.

S. - Ma pensi forse di essere danneggiato in qualche modo dal prenderti cura di te stesso?

A. - Assolutamente no, anzi penso di trarne grande giovamento.

S. - Allora, per prima cosa, in questa tua opinione vi è un grave difetto.

A. - Dici il vero.

S. - In secondo luogo, poi, che questa sia un'opinione falsa, si vede in riferimento al verosimile.

A. - Come?

S. - Non è verosimile che le nature migliori si trovino [E] nelle stirpi più nobili? Non è così?

A. - È chiaro che si trovano nelle stirpi più nobili.

S. - Pertanto, le nature buone, se vengono anche educate bene non diverranno forse perfette quanto a virtù?

A. - Necessariamente.

5.4. Nobiltà ed educazione, doti e ricchezze dei re degli Spartani e dei Persiani

S. - Vediamo se, paragonandoci con loro, i re degli Spartani e dei Persiani non ci sembrino innanzi tutto essere di stirpe inferiore. Oppure non sappiamo che gli uni sono discendenti di Eracle27, gli altri di Achemene28 e che la stirpe di Eracle e quella di Achemene risalgono a Perseo29, figlio di Zeus?

A. - Ma anche la nostra Socrate, risale ad Eurisace30, [121 A] e quella di Eurisace a Zeus.

S. - E la nostra, nobile Alcibiade, risale a Dedalo31, mentre Dedalo discende da Efesto, figlio di Zeus. Tuttavia quelli sono re, discendenti da re, a partire da loro stessi fino a Zeus, gli uni come re di Argo32 e di Sparta, gli altri sempre come re di Persia, spesso anche dell'Asia, come ora, mentre noi e i nostri padri siamo dei privati cittadini. E se tu dovessi far valere i tuoi antenati e la patria di Eurisace, [B] Salamina33, o quella del suo antenato Aiace34, Egina35, a confronto con Artaserse36, figlio di Serse, non pensi a quante risate ti esporresti? Bada, piuttosto, che non risultiamo ad essi inferiori, oltre che per la grandezza della stirpe, anche per l'educazione. Non ti sei accorto dei grandi mezzi dei re spartani, le cui mogli sono per legge sotto la custodia degli efori37, perché, nei limiti del possibile, il re non nasca clandestinamente da altri che [C] da Eraclidi?

Ma il re di Persia supera in tal misura tutti, che nessuno sospetta che il suo erede nasca da altri che da lui: per questo la moglie del re non è custodita che dalla paura. Quando poi, nasce il figlio primogenito, cui spetta il regno, prima fa festa tutto il popolo del re mentre, in seguito, al ricorrere di questo giorno, tutta l'Asia celebra con sacrifici e feste il compleanno del re. [D] Invece, quando nasciamo noi, come dice il poeta comico, non se ne accorgono affatto nemmeno i vicini, o Alcibiade38. Successivamente, il bambino viene allevato non da una nutrice di poco conto39, bensì da eunuchi, scelti tra i migliori intorno al re. Essi hanno il compito, sia di prendersi cura di tutto quello che riguarda il neonato, sia di adoperarsi affinché diventi il più bello possibile, plasmando e raddrizzando le membra del bambino: poiché fanno questo, [E] vengono grandemente stimati. A sette anni questi fanciulli vanno a cavallo, frequentano maestri d'equitazione e incominciano a cacciare. A quattordici anni il ragazzo viene affidato ai cosiddetti pedagoghi reali: essi vengono scelti tra i quattro Persiani, nel fiore dell'età, considerati migliori, per sapienza, giustizia, temperanza, [122 A] coraggio. Di questi, il primo gli insegna la magia di Zoroastro, figlio di Oromasdo40 (ossia il culto degli dèi) e l'arte del regnare; il più giusto lo educa a dir la verità per tutta la vita; il più temperante a non farsi dominare da nessun piacere, perché s'abitui a essere libero e veramente re, governando i propri impulsi e non essendone schiavo; il più coraggioso lo prepara a essere impavido e ardito, perché, se avrà paura, diverrà schiavo. A te invece, o Alcibiade, [B] Pericle ha posto vicino come pedagogo il più inutile dei suoi servi a causa della vecchiaia, Zopiro di Tracia41.

Potrei anche presentarti gli altri tipi di cura ed educazione dei tuoi avversari, se questo non fosse troppo lungo e, insieme, non bastasse a chiarire tutto ciò che ne consegue. Invece, della tua nascita crescita ed educazione, o Alcibiade, (o di qualsiasi altro Ateniese), per essere sinceri, non si cura nessuno, a meno che [C] non sia un tuo amante. Se volessi, infine considerare le ricchezze, il lusso, le vesti, gli strascichi degli abiti, gli unguenti odorosi, il gran seguito di servi, e ogni altra raffinatezza dei Persiani, dovresti vergognarti di te stesso, vedendo quanto sei loro inferiore.

Se vorrai, invece, esaminare la temperanza l'ordine, la destrezza, la cordialità, la grandezza d'animo, la disciplina, il coraggio, la fermezza, la laboriosità, la brama di vittoria e di gloria degli Spartani, ti sentirai proprio un bambino [D] in tutto questo. Anche se ti riferissi alla ricchezza e pensassi di valere qualcosa riguardo a ciò, non dovremmo tacere nemmeno su tale argomento, purché tu comprenda la tua condizione. Se, infatti, intendi esaminare le ricchezze degli Spartani, capirai che le nostre sono di molto inferiori alle loro. Riguardo al territorio che possiedono, nella loro regione e in Messenia42, nessuno potrebbe paragonarsi ad essi né per la quantità, né per la qualità, né per il possesso di schiavi (tra gli altri vi sono anche gli iloti), né per il numero di cavalli, né per tutti i tipi di bestiame [E] che vengono allevati in Messenia.

Comunque, anche mettendo da parte questo, presso tutti i Greci nel loro insieme non vi è tanto oro e argento quanto se ne trova in Laconia43 presso i privati. Esso, infatti, da molte generazioni vi affluisce da tutti i Greci e spesso anche dai barbari, mentre non ne esce affatto; [123 A] anzi, proprio come nella favola di Esopo44 la volpe disse al leone, si può affermare che in Sparta sono chiare le orme del denaro che entra, mentre non si vedono quelle nella direzione opposta. Pertanto, si deve proprio riconoscere che, quanto all'oro e all'argento quelli là sono i più ricchi tra i Greci e più di tutti, lo è il re perché di tali entrate le parti più abbondanti e di maggior valore toccano ai re, mentre non piccolo è anche il tributo regale che gli Spartani pagano [B] ad essi. E le ricchezze degli Spartani, come sono grandi rispetto a quelle dei Greci, così non sono nulla se paragonate con quelle dei Persiani e del loro re. Una volta udii un uomo degno di fede, tra quelli che erano stati alla corte del Re, il quale disse di aver percorso in quasi una giornata di cammino una regione molto ampia e fertile, che gli abitanti del paese chiamano "cintura della sposa del re"; ve n'era anche un'altra che si chiamava [C] "velo" e molti altri luoghi belli e ricchi erano riferiti agli ornamenti della regina: ciascuno prende il nome da una parte del suo abbigliamento. Pertanto, credo che, se qualcuno dicesse ad Amestride45, madre del re, moglie di Serse: "Con tuo figlio ha intenzione di competere il figlio di Dinomache, la quale forse ha un corredo del valore di cinquanta mine al massimo, mentre suo figlio non ha nemmeno trecento pletri di terra ad Erchia"46, ella chiederebbe stupita in che cosa confidi [D] questo Alcibiade che si oppone ad Artaserse. Penso inoltre, che direbbe: "Quest'uomo per la sua impresa non può confidare in nient'altro che nello studio e nella sapienza: solo essi sono degni di considerazione per i Greci". Ma se venisse a sapere che questo Alcibiade intraprende tale impresa, prima di tutto senza avere ancora compiuto vent'anni, poi assolutamente senza educazione e che, inoltre, mentre il suo amante gli suggerisce, per prima cosa, di imparare, perfezionarsi [E] ed esercitarsi, per poi mettersi a combattere col re, egli non lo ascolta, anzi afferma d'essere all'altezza anche così com'è, penso che ella si stupirebbe e domanderebbe: "In che cosa, allora, il giovinetto ripone la sua fiducia?". Se le rispondessimo che confida nella sua bellezza, grandezza, nobiltà, ricchezza, nelle sue qualità naturali penserebbe, Alcibiade, che siamo folli, paragonando tutto ciò con quello che si trova presso di loro. Credo che anche Lampido, [124 A] figlia di Leotichida, moglie di Archidamo madre di Agide47 (i quali furono tutti re), si meraviglierebbe, considerando i beni che si trovano presso di loro, se tu avessi in mente di competere con suo figlio mentre sei così inferiore. Ma allora non ti sembra vergognoso che le mogli dei nemici valutino meglio di noi stessi come dobbiamo essere per poter competere con loro? Orsù, mio caro, da' retta a me e all'iscrizione di Delfi48, "conosci [B] te stesso": sono questi i nostri avversari, non quelli che credi tu; su di essi non potremo avere il sopravvento, se non con lo studio ed il sapere. In mancanza di essi, verrà meno anche la tua gloria sia tra i Greci, sia tra i barbari, mentre mi sembra che tu ne sia desideroso come nessun altro mai lo fu.

6. Indagine sui compiti dell'uomo politico

6.1. Ricerca di ciò che rende migliori e più capaci di comandare nella Città

A. - Qual è, allora, Socrate, lo studio a cui ci si deve applicare? Me lo puoi indicare? Mi sembra proprio che tu abbia detto la verità.

S. - Sì. Però dobbiamo cercare insieme il modo in cui [C] si diventa migliori il più possibile. Ciò che affermo sulla necessità dell'educazione, infatti, non si applica soltanto a te e non a me: tra noi due non c'è che una sola differenza.

A. - Quale?

S. - Il mio tutore è migliore e più sapiente del tuo, Pericle.

A. - E chi è il tuo tutore, Socrate?

S. - Il dio, Alcibiade, che non mi ha permesso di discutere con te prima di questo giorno, confidando in lui, affermo che la rivelazione49 di chi tu sia non potrà avvenire che attraverso di me. [D]

A. - Tu scherzi, Socrate.

S. - Forse. Però, dico la verità, affermando che abbiamo bisogno di studio, o meglio, ne hanno bisogno tutti gli uomini, ma noi due in modo speciale.

A. - Che ne abbia bisogno io, non è certo falso.

S. - E nemmeno che sia necessario a me.

A. - E allora, che cosa dobbiamo fare?

S. - Non bisogna desistere, né cedere alla debolezza, mio caro amico.

A. - Non sarebbe affatto conveniente, o Socrate.

S. - No davvero, ma bisogna ricercare insieme. E dimmi: [E] sosteniamo di voler diventare migliori quanto più è possibile. Non è così?

A. - Sì.

S. - In quale virtù?

A. - E chiaro che si tratta di quella degli uomini di valore.

S. - Ma in che cosa?

A. - Come è evidente, negli affari.

S. - Quali? Forse quelli riguardanti l'ippica?

A. - Per nulla affatto.

S. - Perché, in questo caso, ci rivolgeremmo ai maestri d'equitazione?

A. - Sì.

S. - Ma allora, ti riferisci a ciò che riguarda la navigazione?

A. - No.

S. - Perché, in questo caso, ci rivolgeremmo ai marinai?

A. - Sì.

S. - Ma di quali affari si tratta? E chi se ne occupa?

A. - Di ciò di cui si occupano i migliori Ateniesi. [125 A]

S. - Consideri migliori i saggi o gli stolti?

A. - I saggi.

S. - E ciascuno, dove è saggio è anche di valore?

A. - Sì.

S. - Mentre dove e stolto, è cattivo?

A. - Come potrebbe essere altrimenti?

S. - Allora, il calzolaio è saggio nel confezionare scarpe?

A. - Certamente.

S. - E, dunque, è di valore in questo?

A. - Sì.

S. - Ma nella confezione di abiti il calzolaio non è stolto?

A. - Sì.

S. - E, pertanto, in ciò è cattivo? [B]

A. - Sì.

S. - La stessa persona, dunque, in base a questo ragionamento, è sia cattivo, sia di valore.

A. - Pare di sì.

S. - Forse affermi che gli uomini capaci sono anche incapaci?

A. - Per nulla affatto.

S. - Ma allora, chi sono quelli che tu consideri di valore?

A. - Quelli che sono in grado di comandare nella Città.

S. - Certo non intendi: comandare i cavalli?

A. - Senz'altro no.

S. - Ti riferisci, invece, agli uomini?

A. - Sì.

S. - A uomini ammalati?

A. - No.

S. - A naviganti?

A. - No.

S. - Allora, a mietitori?

A. - Neppure. [C]

S. - Sono, però, uomini che non fanno nulla, oppure che agiscono?

A. - Parlo di persone che agiscono.

S. - Di che cosa si tratta? Cerca di farlo comprendere anche a me.

A. - Ebbene, si tratta di uomini che hanno relazioni e affari tra loro, come noi che viviamo tra concittadini.

S. - Parli del comandare a uomini che si servono di altri?

A. - Sì.

S. - Ti riferisci ai capi dei rematori?

A. - Per nulla affatto.

S. - Perché questa arte compete al nocchiero?

A. - Sì.

S. - Oppure ti riferisci al comandare agli auleti, [D] che dirigono il canto e si servono di coreuti?

A. - Assolutamente no.

S. - Perché, di nuovo, questa arte compete al maestro del coro?

A. - Appunto.

S. - Ma allora, che cosa intendi con essere in grado di comandare a uomini che si servono di altri?

A. - Parlo di uomini che hanno una vita comune nello Stato e sono in rapporto tra loro: a questi si deve comandare nella Città.

S. - Di quale arte si tratta? E come se ti chiedessi di nuovo ciò su cui ti ho interrogato poco fa: qual è l'arte che rende capaci di comandare a quelli che compiono una navigazione in comune?

A. - L'arte del nocchiero. [E]

S. - E quale scienza permette di comandare, come si è detto poco fa, a quelli che cantano insieme?

A. - Quella a cui ti riferivi or ora, l'arte del maestro del coro.

S. - Ebbene, come chiami la scienza che permette di comandare a quelli che hanno una vita comune nello Stato?

A. - Per me, Socrate, si chiama scienza del consigliare bene.

S. - Ma allora, quella dei nocchieri ti sembra priva del consigliare bene?

A. - Assolutamente no.

S. - Ed è, invece, un consigliare bene? [126 A]

A. - Mi sembra che sia un consigliare bene per la salvezza di chi naviga.

S. - Dici bene. E allora, la scienza del consigliare bene di cui tu parli a che scopo mira?

A. - A governare meglio la Città e assicurarle la salvezza.

6.2. La Città viene governata e salvata dall'amicizia e dalla concordia, che si basano su giustizia e conoscenza

S. - Ma che cosa, con la sua presenza o assenza, permette che la Città sia governata meglio e salvata? E come se tu mi chiedessi: "Che cosa con la sua presenza o assenza, fa sì che il corpo sia governato meglio e conservato?" ed io ti rispondessi che deve essere presente la salute, assente la malattia. Non pensi anche tu così? [B]

A. - Sì.

S. - E se tu di nuovo mi chiedessi: "Che cosa deve essere presente, per giovare agli occhi?", allo stesso modo ti direi che deve essere presente la vista, assente la cecità. Riguardo agli orecchi, poi, quando è assente la sordità ed è invece presente l'udito, funzionano meglio e si trovano in una condizione migliore.

A. - Esattamente.

S. - E allora, in una Città che cosa deve essere presente e che cosa assente, perché diventi migliore e venga meglio curata e governata? [C]

A. - Mi sembra, Socrate, che ciò avvenga quando vi sia tra i cittadini un'amicizia reciproca, e siano assenti l'odio e la contesa.

S. - E per amicizia intendi la concordia o la discordia?

A. - La concordia.

S. - Attraverso quale arte le Città sono concordi sui numeri?

A. - Attraverso l'aritmetica.

S. - E i singoli non lo divengono grazie alla stessa arte?

A. - Sì.

S. - Pertanto, ciascuno viene ad essere d'accordo con se stesso?

A. - Sì.

S. - Ma attraverso quale arte ciascuno [D] è d'accordo con se stesso nello stabilire quale misura sia più grande tra la spanna ed il cubito? Non si tratta della metretica?

A. - Senz'altro.

S. - E, di conseguenza, grazie ad essa sono in accordo anche i singoli e le Città?

A. - Sì.

S. - Ma allora, riguardo al peso non accade lo stesso?

A. - Lo ammetto.

S. - La concordia di cui tu parli, in che cosa consiste, a quale scopo mira e quale arte la produce? E l'arte che realizza la concordia nella Città è la stessa che la produce anche nei singoli, in se medesimi e in rapporto ad altri?

A. - È probabile.

S. - E qual è, allora? Non stancarti di rispondermi, ma [E] abbi il coraggio di parlare.

A. - Secondo me, si tratta di quell'amicizia e concordia, per cui il padre e la madre che amano il proprio figlio vanno d'accordo con lui, e il fratello con il fratello e la moglie col marito.

S. - Tu, Alcibiade, pensi, dunque, che il marito possa essere d'accordo con la moglie sull'arte del lavorare la lana, senza conoscere ciò che ella sa?

A. - No di certo.

S. - Non è nemmeno necessario, dato che si tratta di una conoscenza riguardante le donne.

A. - Sì. [127 A]

S. - Ma allora, la donna potrebbe essere d'accordo con il marito sull'arte dell'oplita senza conoscerla?

A. - No davvero.

S. - Mi potresti dire, forse, che si tratta di una conoscenza da uomini.

A. - Certamente.

S. - Dunque, stando alle tue parole vi sono delle conoscenze da donne altre da uomini

A. - E come no?

S. - In queste, allora, non vi è concordia fra moglie e marito.

A. - No.

S. - Pertanto, non vi è nemmeno amicizia, se l'amicizia è concordia.

A. - Pare di no.

S. - Dunque, se le donne si occupano di ciò che è loro proprio, non sono amate dai mariti. [B]

A. - Non sembra.

S. - E nemmeno i mariti dalle mogli, nella misura in cui attendono a ciò che è loro proprio.

A. - No.

S. -Nemmeno le Città, allora, vengono ben governate, quando ciascuno attende a ciò che gli è peculiare?

A. - Penso di sì, Socrate.

S. - Come dici? Quando è assente l'amicizia che, come affermammo, con la sua presenza fa sì che le Città siano ben governate, mentre, nel caso contrario, esse non lo sono?

A. - Invece, a me sembra che vi sia amicizia tra di essi perché ciascuno attende a ciò che gli è peculiare. [C]

S. - Poco fa non ti sembrava così: ora, invece, che cosa sostieni? Se non vi è concordia, vi può essere amicizia? O è possibile che vi sia concordia intorno a cose che gli uni conoscono, gli altri no?

A. - È impossibile.

S. - Quando ciascuno si occupa di ciò che gli è peculiare, agisce in modo giusto o ingiusto?

A. - In modo giusto: come no?

S. - Perciò, quando i membri di una Città agiscono in modo giusto, non vi è amicizia reciproca?

A. - Mi sembra necessario, Socrate. [D]

S. - Qual'è, allora, questa amicizia e concordia di cui parli, in riferimento alla quale dobbiamo essere sapienti e consigliare bene, per essere uomini valenti? Non riesco davvero a comprendere né quale sia né in chi si trovi. Dalle tue parole, talvolta sembra essere presente tra le stesse persone, altre volte no.

7. L'uomo è la sua anima

7.1. Chiarificazione del significato del "prendersi cura di sé"

A. - Per gli dèi, o Socrate, non so neppure io quello che dico, e vi è il rischio che già da tempo, senza accorgermene, mi trovi in una situazione vergognosa.

S. - Devi farti coraggio. Se, infatti, ti fossi accorto di questo [E] a cinquant'anni, ti sarebbe riuscito difficile prenderti cura di te stesso: ora invece, la tua età è quella in cui ci si deve rendere conto di ciò.

A. - Che cosa deve fare pertanto, Socrate, chi si accorge di questo?

S. - Rispondere alle domande, Alcibiade. Nel fare questo, al dio piacendo, se si deve credere almeno un po' ai miei presagi, tu e io ci troveremo in una migliore condizione.

A. - Ciò accadrà, se dipende dal fatto che io risponda.

S. - Ebbene, che cosa significa prendersi cura di sé, perché spesso, [128 A] senza accorgercene, non ci succeda di trascurare noi stessi, pur credendo di farlo? E quando un uomo si prende cura di se stesso? Forse, quando si prende cura di ciò che è suo, allora si occupa anche di sé?

A. - Mi sembra proprio che sia così.

S. - Ma un uomo si prende cura dei propri piedi quando si occupa anche di ciò che riguarda i piedi?

A. - Non capisco.

S. - Vi è qualcosa che secondo te riguarda la mano? Per esempio, di un anello diresti che riguardi un'altra parte dell'uomo, al di fuori del dito?

A. - Senz'altro no.

S. - Ebbene, allo stesso modo, anche la scarpa riguarda il piede?

A. - Sì.

S. - E, in modo simile, i mantelli e le coperte riguardano le altre parti del corpo? [B]50

A. - Sì.

S. - Perciò, quando ci prendiamo cura delle scarpe, facciamo altrettanto dei piedi?

A. - Non riesco a capire bene, Socrate.

S. - Ma allora, Alcibiade, non affermi che vi è un modo di prendersi cura correttamente di qualsiasi oggetto?

A. - Lo affermo.

S. - Dunque, quando uno lo rende migliore, secondo te se ne prende cura in modo corretto?

A. - Sì.

S. - Ma quale arte rende migliori le scarpe?

A. - Quella del calzolaio.

S. - Perciò, con l'arte del calzolaio ci prendiamo cura delle scarpe? [C]

A. - Sì.

S. - E con l'arte del calzolaio ci curiamo anche del piede, oppure lo facciamo tramite quella con cui rendiamo migliori i piedi?

A. - Con quella.

S. - Ma non si rendono migliori i piedi con l'arte con cui si fa migliorare anche il resto del corpo?

A. - Mi sembra che sia così.

S. - E non si tratta della ginnastica?

A. - Proprio.

S. - Con la ginnastica, allora, ci prendiamo cura del piede, mentre con l'arte del calzolaio ci occupiamo di ciò che riguarda il piede?

A. - Certamente.

S. - E con la ginnastica ci curiamo delle mani, mentre con l'arte dell'orefice di ciò che riguarda la mano?

A. - Sì.

S. - Sempre con la ginnastica ci prendiamo cura del corpo, mentre con la tessitura e le altre arti [D] ci occupiamo di ciò che riguarda il corpo?

A. - È proprio così.

S. - Pertanto, con un'arte ci si prende cura di un oggetto qualsiasi, con un'altra di ciò che lo riguarda.

A. - È chiaro.

S. - Allora, quando ti prendi cura di ciò che ti riguarda, non ti occupi di te stesso.

A. - Assolutamente no.

S. - Perché non è la stessa arte, come sembra, quella con cui ci si prende cura di sé e quella con cui a si occupa di ciò che è proprio.

A. - Senz'altro no.

7.2. La "cura di sé" è la conoscenza di se stessi

S. - Ebbene, con quale arte possiamo prenderci cura di noi stessi?

A. - Non lo so. [E]

S. - Ma su questo siamo d'accordo: non si tratta dell'arte con cui potremmo migliorare qualsiasi cosa che ci riguardi, bensì di quella con cui rendiamo migliori noi stessi.

A. - È vero.

S. - Allora, avremmo potuto sapere quale arte renda migliori le scarpe, senza conoscere queste ultime?

A. - È impossibile.

S. - E nemmeno quale arte renda migliori gli anelli, senza conoscere questi ultimi

A. - È vero.

S. - Ebbene, potremmo mai sapere quale arte renda migliore se stessi, mentre ignoriamo chi siamo noi stessi? [129 A]

A. - È impossibile.

S. - Ma è forse facile conoscere se stessi ed era un buono a nulla colui che ha posto quell'iscrizione sul tempio di Delfi, oppure si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti?

A. - Molte volte, Socrate, mi è sembrata una cosa alla portata di tutti, molte volte, invece, assai difficile.

S. - Tuttavia, Alcibiade, che sia facile oppure no, per noi la questione si pone così: conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre, se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere.

A. - È così. [B]

S. - Ebbene, in quale modo si potrebbe trovare questo se stesso?51 Così, infatti, scopriremo chi siamo, mentre, finché lo ignoreremo, ciò sarà impossibile.

A. - Dici bene.

7.3. L'essenza dell'uomo è l'anima, il corpo è il suo strumento

S. - Fermati, per Zeus! Con chi stai parlando ora? Non stai parlando con me?

A. - Sì.

S. - E anch'io con te?

A. - Sì.

S. - Socrate, allora, è colui che parla?

A. - Proprio.

S. - Mentre Alcibiade è colui che ascolta?

A. - Sì.

S. - Ma Socrate non discute forse con parole? [C]

A. - È ovvio.

S. - Il discutere ed il servirsi di parole per te coincidono?

A. - Senz'altro.

S. - Ma chi si serve e ciò di cui ci si serve non sono differenti?

A. - Come dici?

S. - Per esempio, il calzolaio taglia con il trincetto, la lesina, e altri strumenti.

A. - Sì.

S. - Pertanto, chi taglia e si serve di qualcosa è diverso da ciò che, tagliando, usa?

A. - Come no?

S. - E così anche gli strumenti di cui si serve il suonatore di cetra sono diversi dal citarista stesso?

A. - Sì. [D]

S. - Poco fa chiedevo proprio questo: non ti sembra che siano sempre diversi colui che utilizza uno strumento e ciò che viene utilizzato?

A. - Mi sembra di sì.

S. - E che cosa dobbiamo dire del calzolaio? Taglia soltanto con gli strumenti, o anche con le mani?

A. - Anche con le mani.

S. - Si serve, dunque, anche di queste?

A. - Sì.

S. - E non si serve anche degli occhi nel tagliare il cuoio?

A. - Sì.

S. - Ma abbiamo convenuto che sono diversi colui che si serve di qualcosa e ciò di cui si serve?

A. - Sì.

S. - Dunque, calzolaio e citarista sono diversi dalle mani e [E] dagli occhi di cui si servono?

A. - È chiaro.

S. - E l'uomo non si serve di tutto il corpo?

A. - Senz'altro.

S. - Ma non ci risultava diverso chi si serve di qualcosa da ciò di cui si serve?

A. - Sì.

S. - Pertanto, l'uomo è diverso dal suo corpo?

A. - Sembra di sì.

S. - Che cos'è, allora, l'uomo?

A. - Non so che cosa rispondere.

S. - Però, sai che è ciò che si serve del corpo.

A. - Sì. [130 A]

S. - Vi è forse qualcos'altro che se ne serve, al di fuori dell'anima?

A. - Nient'altro.

S. - E se ne serve comandandogli?

A. - Sì.

S. - Penso che anche su tale altra questione nessuno possa avere un parere diverso.

A. - Quale?

S. - Che l'uomo sia almeno una di queste tre cose.

A. - Quali?

S. - O anima, oppure corpo, oppure entrambi insieme, come un tutto unico.

A. - Senz'altro.

S. - Ma non avevamo ammesso che l'uomo è ciò che comanda al corpo? [B]

A. - Esattamente.

S. - Forse il corpo comanda a se stesso?

A. - Assolutamente no.

S. - Difatti, abbiamo detto che viene comandato.

A. - Sì.

S. - Allora, questo non potrebbe essere ciò che cerchiamo.

A. - Non sembra.

S. - Ma forse, sono entrambi insieme a comandare al corpo, e questo è l'uomo?

A. - È probabile.

S. - Per nulla affatto: se una delle due parti non partecipa al governo, è impossibile che il loro insieme comandi.

A. - Esatto. [C]

S. - Se, allora, non è uomo né il corpo, né l'insieme di corpo e anima, resta, credo, da concludere o che l'uomo non sia nulla, oppure che, se è qualcosa, non sia altro che anima.

A. - Perfetto.

S. - Ed è necessario dimostrarti ancora più chiaramente che l'anima è l'uomo?

A. - Per Zeus, mi sembra abbastanza dimostrato.

S. - Anche se non è una dimostrazione rigorosa, bensì soddisfacente, ci può bastare: avremo una conoscenza rigorosa quando troveremo ciò che ora [D] abbiamo trascurato, trattandosi di una lunga ricerca.

A. - A che cosa ti riferisci?

S. - A ciò che dicemmo poco fa, ossia che, innanzi tutto bisogna ricercare che cosa sia questo se stesso. Adesso, invece, al posto del se stesso abbiamo cercato che cosa sia in sé ogni singolo. Forse basterà, perché non si potrebbe dire che vi sia qualcosa di più alto dell'anima.

A. - No di certo.

S. - Pertanto, è giusto credere che, quando tu ed io conversiamo insieme, servendoci di parole, la mia anima si rivolga alla tua? [E]

A. - Esattamente.

S. - È proprio quello che stavamo dicendo anche poco fa: quando Socrate dialoga con Alcibiade, servendosi di parole, non le rivolge al suo viso, come sembrerebbe, bensì ad Alcibiade stesso, ossia alla sua anima.

A. - Sembra anche a me.

S. - L'anima, dunque, ci ordina di conoscere colui che comanda di conoscere se stessi. [131 A]

A. - Sembra.

7.4. Modi errati di "curarsi di se stessi"

S. - Chi, allora, conosce una parte del proprio corpo, conosce ciò che gli appartiene, ma non conosce se stesso.

A. - È così.

S. - Di conseguenza, nessun medico e nessun maestro di ginnastica, in quanto tale, conosce se stesso.

A. - Non mi sembra.

S. - Pertanto, i contadini e gli altri artigiani sono ancora più lontani dal conoscere se stessi. Anzi, questi non sembrano neppure conoscere ciò che è loro proprio, bensì qualcosa di ancora più distante, secondo [B] le diverse arti da essi esercitate, dato che conoscono, di quello che riguarda il corpo, ciò che ad esso giova.

A. - È vero.

S. - Se, dunque, è temperanza il conoscere se stessi, nessuno di questi è temperante grazie alla propria arte.

A. - Non mi sembra.

S. - Proprio per questo motivo si ritiene che tali arti siano ignobili e non siano conoscenze degne di un uomo di valore.

A. - Senz'altro.

S. - Ancora una volta, dunque, chi si prende cura del corpo, si cura di ciò che gli è proprio, ma non di se stesso?

A. Può darsi che sia così.

S. - Chi poi si prende cura delle ricchezze non si prende cura né di se stesso, né [C] di ciò che gli appartiene, ma di qualcosa ancora più distante?

A. - Mi sembra.

S. - Chi, dunque, accumula ricchezze non si occupa di ciò che gli è proprio.

A. - Esattamente.

7.5. Amare un uomo è amare la sua anima, non il suo corpo

S. - Allora, se uno ama il corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, bensì una delle cose che gli appartengono.

A. - Dici il vero.

S. - Invece ti ama, solo chi ama la tua anima.

A. - Questo deriva necessariamente dal ragionamento fatto.

S. - Ma chi ama il tuo corpo non ti abbandona forse quando sfiorisce?

A. - Mi sembra. [D]

S. - Invece, chi ama l'anima non se ne va, finché essa procede sulla via del meglio?

A. - Naturalmente.

S. - Ecco, io sono colui che non ti abbandona, ma rimane quando il tuo corpo sfiorisce, mentre gli altri si sono allontanati.

A. - E fai veramente bene Socrate! Non mi abbandonare!

S. - Cerca, allora, di essere bello quanto più è possibile.

A. - Cercherò senz'altro. [E]

S. - La situazione è questa: Alcibiade, figlio di Clinia, non ha avuto, né ha, come sembra, nessun amante, tranne uno solo, e degno di essere amato, Socrate, figlio di Sofronisco e di Fenarete52.

A. - È vero.

S. - Ma non mi avevi detto che ti avevo preceduto di poco, perché tu per primo avevi l'intenzione di avvicinarti a me, volendo sapere perché mai io soltanto non ti abbandoni?

A. - Era proprio così.

S. - La causa è questa: soltanto io ero innamorato di te, mentre gli altri lo erano di quello che ti appartiene. Ma ciò che è tuo comincia a perdere la floridezza giovanile, mentre tu incominci a fiorire. [132 A] E ora, se non ti lascerai corrompere dal popolo di Atene e non diverrai peggiore, non ti abbandonerò. Proprio questo è ciò che soprattutto temo, che tu ti faccia corrompere diventando amante del popolo; a molti Ateniesi di valore, infatti, è già capitata una simile sorte, perché "il popolo del magnanimo Eretteo"53 ha un bell'aspetto, ma bisogna osservarlo quando si è tolto la maschera. Prendi, allora, le precauzioni che ti suggerisco.

A. - Quali? [B]

S. - Innanzi tutto, mio caro, esercitati e impara ciò che si deve conoscere per entrare nella vita politica. Tuttavia, non farlo prima in modo da introdurti quando possiedi l'antidoto, senza patire nulla di pericoloso.

A. - Mi sembra che tu dica bene, Socrate; cerca, però, di spiegarmi in quale modo potremo prenderci cura di noi stessi.

S. - Ebbene, un primo passo in avanti l'abbiamo fatto: su quello che siamo, infatti, abbiamo raggiunto un accordo conveniente, mentre temevamo, caduti in errore su questo, di prenderci cura, senza accorgercene, di qualcosa di diverso, ma non di noi stessi.

A. - È così. [C]

S. - E poi, abbiamo convenuto che ci si deve curare dell'anima e mirare a questo.

A. - È chiaro.

S. - Invece, la cura del corpo e delle ricchezze deve essere lasciata ad altri.

A. - Come no?

7.6. Per conoscere noi stessi dobbiamo guardare al divino che è in noi

S. - In che modo, dunque, si potrebbe cogliere questa verità il più chiaramente possibile? Perché mi sembra che, comprendendola, conosceremo anche noi stessi. Forse, tuttavia, per gli dèi, non comprendiamo bene il giusto precetto di Delfi, appena ricordato?

A. - Che cosa intendi con queste parole, o Socrate? [D]

S. - Ti esporrò le mie supposizioni su quello che tale precetto ci vuole dire e consigliare. É, infatti, probabile che di questo non si trovino altri esempi, se non nella vista.

A. - Che cosa intendi dire?

S. - Rifletti anche tu. Se, essa, nel consigliare il nostro occhio come se fosse un uomo, dicesse: "guarda te stesso", come dovremmo intendere tale esortazione? Non sarebbe nel senso di mirare a ciò in cui l'occhio, guardando, vedrebbe se stesso?

A. - È chiaro.

S. - Ebbene, consideriamo quale sia l'oggetto, volgendoci al quale [E] possiamo vedere insieme sia lui, sia noi stessi.

A. - È chiaro, Socrate, che si tratta degli specchi e di oggetti di tale specie.

S. - Dici il vero. Ma forse, anche nell'occhio con cui vediamo, non vi è qualcosa di simile?

A. - Senz'altro.

S. - Non hai notato, allora, che il volto di chi guarda [133 A] nell'occhio appare riflesso, come in uno specchio, nella parte dell'occhio di chi si trova di fronte, che chiamiamo anche pupilla, dato che è un'immagine di colui che osserva?

A. - Ciò che dici è vero.

S. - Pertanto, se un occhio ne contempla un altro e guarda dentro la sua parte migliore, con cui anche vede, può osservare se stesso?

A. - Mi sembra di sì.

S. - Se, invece, osserva un'altra parte dell'uomo o degli esseri, fatta eccezione per quella che gli è simile, non vedrà se stesso. [B]

A. - È vero.

S. - Se, dunque, l'occhio vuole vedere se stesso deve guardare nell'occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva, che è la vista?

A. - È così.

S. - Ma allora, caro Alcibiade, anche l'anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare nell'anima e soprattutto in quella parte in cui sorge la virtù dell'anima, la sapienza, e in altro a cui questa assomigli?54

A. - Mi sembra di sì, Socrate. [C]

S. - Possiamo, perciò, dire che vi sia una parte dell'anima più divina di quella in cui hanno sede il conoscere e il pensare?

A. - Non è possibile.

S. - Ebbene, questa parte è simile al dio, e chi la contempla e conosce tutto ciò che è divino, dio ed il pensiero, giunge a conoscere anche se stesso il più possibile.

A. - Sembra.

S. - Ma allora, come gli specchi sono più chiari di quello che si trova nel nostro occhio e più puri e luminosi, così anche il dio è più puro e luminoso della parte migliore della nostra anima?

A. - È naturale, Socrate.

S. - Perciò, guardando al dio e, tra le cose umane, alla virtù dell'anima ci serviremo dello specchio più bello, e così potremo vedere e conoscere noi stessi il più possibile.

A. - Sì.55

7.7. Solo chi conosce se stesso è giusto e temperante e può governare la Città

S. - Ma non abbiamo convenuto che il conoscere se stessi è temperanza?56

A. - Senz'altro.

S. - Ebbene, senza conoscere noi stessi, né essere temperanti, potremmo forse sapere che cosa vi sia in noi, sia di cattivo, sia di buono?

A. - E come potrebbe accadere, Socrate? [D]

S. - Ti sembrerà ugualmente impossibile che, senza conoscere Alcibiade, si possa sapere se ciò che riguarda Alcibiade sia suo.

A. - Davvero impossibile, per Zeus.

S. - Non potremmo nemmeno sapere che ciò che è nostro è tale, senza conoscere noi stessi?

A. - E come?

S. - Ma se non conosciamo ciò che è nostro, non conosceremo neppure ciò che vi è connesso?

A. - Non mi sembra.

S. - Pertanto, poco fa abbiamo sbagliato nel convenire che vi sono alcuni che non conoscono se stessi, ma ciò che è loro proprio, e altri che conoscono ciò che ne dipende. Sembra, infatti, che spetti [E] a una sola persona e arte il considerare sé, ciò che è proprio, ciò che vi si collega.

A. - È probabile.

S. - Ma allora, chi non conosce ciò che gli è proprio, ignorerà anche ciò che appartiene agli altri, per ragioni analoghe.

A. - E come potrebbe essere diverso?

S. - Se non conosce ciò che appartiene agli altri, ignorerà anche ciò che è proprio della Città.

A. - È necessario.

S. - Perciò, non potrebbe essere un uomo politico.

A. - Senz'altro no.

S. - E nemmeno un amministratore di affari domestici. [134 A]

A. - No di certo.

S. - E non saprà nemmeno che cosa fa.

A. - Proprio no.

S. - Tuttavia, se non sa, non sbaglierà?

A. - Certamente.

S. - E se sbaglia non si troverà male, sia nella vita privata, sia in quella pubblica?

A. - Come no?

S. - Ma trovandosi male, non sarà infelice?

A. - Proprio.

S. - E coloro di cui egli si occupa?

A. - Anche questi.

S. - Pertanto, non è possibile, se non si è temperanti e buoni, essere felici. [B]

A. - Non è possibile.

S. - Perciò, gli uomini cattivi sono infelici.

A. - Sono molto infelici.

S. - Dunque, all'infelicità non sfugge chi diventa ricco, bensì chi diventa temperante.

A. - È chiaro.

S. - Allora, Alcibiade, le Città non hanno bisogno né di mura né di triremi, né di cantieri, per essere felici, né di popolazione numerosa né di grandezza, senza virtù.

A. - Senz'altro no.

S. - Se hai intenzione di occuparti della Città in modo retto e [C] bene, devi rendere partecipi i cittadini della virtù.

A. - Come no?

S. - Però, uno potrebbe rendere partecipi altri di ciò che non ha?

A. - E come?

S. - Perciò, tu devi, innanzi tutto, acquistare la virtù, e questo deve fare chiunque voglia governare e curarsi, non solo di sé e di ciò che gli è peculiare57, ma anche della Città e delle funzioni pubbliche.

A. - Dici il vero.

S. - Non devi, allora, procurare a te stesso e alla Città né la libertà né il potere di fare ciò che ti pare, bensì giustizia e temperanza.

A. - Mi sembra. [D]

S. - Difatti, comportandovi secondo giustizia e temperanza, tu e la Città agirete in modo gradito al dio.

A. - È giusto.

S. - E, come si diceva prima, nell'agire guarderete a ciò che è divino e luminoso.

A. - Mi pare.

S. - Ma, rivolgendo lo sguardo lì, vedrete e conoscerete anche voi stessi e il vostro bene.

A. - Sì.

S. - E, allora, agirete secondo rettitudine e bene?

A. - Sì. [E]

S. - Desidero anche garantirvi che, agendo in tal maniera, sarete felici.

A. - Sei davvero un garante sicuro!

S. - Se, invece, vi comporterete ingiustamente, mirando a ciò che è empio ed oscuro, come è ovvio, agirete in modo simile, ignorando voi stessi.

A. - È naturale.

S. - Perché, caro Alcibiade, a chi abbia il potere di fare quello che gli pare, ma non abbia intelligenza, che cosa capiterà, probabilmente, sia come privato, sia come Città? Ad esempio, a un malato, che abbia il potere di fare [135 A] ciò che vuole, privo di conoscenze mediche, e che spadroneggi senza essere rimproverato, che cosa accadrà? Non succederà, forse, com'è naturale, che rovini il proprio corpo?

A. - È vero.

S. - E in una nave, se uno che abbia il potere di fare quello che gli pare, fosse privo di intelligenza ed incapace di pilotare, non vedi che cosa capiterebbe a lui ed ai suoi compagni?

A. - È chiaro: morirebbero tutti.

S. - Ebbene, allo stesso modo, in una Città e in tutti i tipi di governo e [B] di potere, privi di virtù, si avranno come conseguenza delle disgrazie?

A. - È necessario.

8. Conclusioni

S. - Perciò, carissimo Alcibiade, non devi cercare, per te e per la Città, il potere tirannico58, se desiderate essere felici bensì la virtù.

A. - È vero.

S. - Prima di aver raggiunto la virtù, conviene essere comandati da chi è migliore, piuttosto che comandare, non solo da fanciulli, ma anche quando si è uomini fatti.

A. - Mi sembra.

S. - Ciò che è migliore è anche più bello?

A. - Sì.

S. - Ma ciò che è più bello è più conveniente? [C]

A. - E come no?

S. - Pertanto, all'uomo cattivo conviene servire: per lui, infatti, è meglio.

A. - Sì.

S. - La cattiveria, allora, è uno stato servile.

A. - Mi sembra di sì.

S. - La virtù, invece, è una condizione da liberi.

A. - Sì.

S. - Perciò, amico mio, bisogna fuggire lo stato servile?

A. - Nel modo più assoluto, Socrate.

S. - Ma allora, ti rendi conto della condizione in cui sei? È da uomini liberi, oppure no?

A. - Mi sembra di rendermene conto fin troppo.

S. - E sai come sfuggire a questa tua condizione attuale, che non intendo definire, di fronte ad un uomo così bello? [D]

A. - Lo so.

S. - Come?

A. - Se lo vuoi tu, Socrate.

S. - Non rispondi bene, Alcibiade.

A. - Ma come si deve rispondere?

S. - Se il dio lo vuole.

A. - Dirò così. Inoltre, aggiungo che corriamo il rischio di scambiarci le parti, Socrate, io la tua, e tu la mia. Non è, infatti, possibile che, da oggi in poi, io non segua ovunque te, e tu me. [E]

S. - Nobile giovane! Il mio amore non sarà per nulla diverso da quello di una cicogna59; dopo aver fatto schiudere in te un amore alato, verrà a sua volta curato da esso.

A. - È proprio così, e voglio incominciare da ora ad occuparmi della giustizia.

S. - Vorrei che tu perseverassi, ma ho paura, non per mancanza di fiducia nella tua natura, bensì nel vedere la forza della Città, che essa prenda il sopravvento su di me e su di te.

Note

1- Il daimonon era un "segno", una "voce" divina, che vietava o suggeriva a Socrate delle azioni. torna al testo ^

2- Pericle (499-429 a.C.), figlio di Santippo, vincitore della battaglia di Micale (479 a.C.) contro i Persiani, e di Agaristo, nipote di Clistene, fu uno dei più celebri uomini politici ateniesi. torna al testo ^

3- Si tratta di due celebri imperatori persiani, della stirpe degli Achemenidi; regnarono rispettivamente nel 559-529 a.C. e nel 486_465 a.C. circa. Cfr. 120 E-124 B, l'ampia descrizione dello splendore e dei pregi della civiltà persiana. torna al testo ^

4- Socrate oppone, al lungo "discorso di parata" dei Sofisti, che è un vuoto sfoggio di bravura, il proprio metodo dialogico, fondato sul rapporto fra anima e anima, procedendo per domanda e risposta. torna al testo ^

5- Plutarco, Vita di Alcibiade, 2, attesta l'odio di Alcibiade per il flauto, di cui Aristotele, Politica, VIII 6, presenta il motivo. torna al testo ^

6- Cfr. Platone, Eutifrone, 3 B-C; Leggi, 759 D. torna al testo ^

7- Cfr. Cratilo, nota 7. torna al testo ^

8- Cfr. Omero, Iliade, XXIII 85-88; Platone, Liside, 206 E; Teeteto, 154 C. Far torto, nelle gare e nei giochi, consiste nel violame le leggi (cfr. Aristofane, Nuvole, 25). torna al testo ^

9- Cfr. Carmide, 174 B; Gorgia, 450 D; Repubblica, I 333 B, II 374 C. torna al testo ^

10- Battaglia che ebbe luogo nel 457 a.C. fra Ateniesi da una parte e Spartani e Beoti dall'altra. torna al testo ^

11- A Cheronea, Filippo, re di Macedonia, vinse gli Ateniesi nel 338 a.C. torna al testo ^

12- Il metodo dialogico di Socrate consisteva nel limitarsi a porre domande, mentre l'onere delle risposte e delle affermazioni ricadeva sull'interlocutore. torna al testo ^

13- Cfr. Euripide, Ippolito, 352. torna al testo ^

14- Le parole contenute in Alcibiade maggiore, 115 E, 5-7, non si trovano nei codici, ma sono state tramandate soltanto da Giovanni Stobeo. Si noti che Socrate, per dimostrare che il bello è buono, fa leva sul coraggio: la prova è valida solo se si ammette, come fa Alcibiade, che il coraggio è buono. torna al testo ^

15- La locuzione greca eu pràttein significa, sia "star bene", "comportarsi bene", sia "essere felici". Socrate si basa su questo doppio senso per dimostrare che cio che è bello è utile. torna al testo ^

16- Sono gli abitanti dell'isola di Pepareto, oggi chiamata Skopelos, una delle Sporadi. torna al testo ^

17- Il pitagorico Pitoclide di Ceo era un maestro di musica. Platone, Protagora, 316 A, ne ricorda anche le capacità politiche. torna al testo ^

18- Per Anassagora di Clazomene filosofo presocratico pluralista. Per il rapporto fra Anassagora e Pericle, cfr. Fedro, 270A. torna al testo ^

19- Damone, un celebre musico, viene ricordato in Lachete, 180D; Repubblica, III, 400 B; IV, 424 C. Plutarco, Vita di Pericle, 4, lo presenta anche come un uomo politico. torna al testo ^

20- I figli di Pericle, Xantippo e Paralo, morirono di peste prima del padre. torna al testo ^

21- Pitodoro, figlio di Isoloco, era un ammiratore di Zenone di Elea. torna al testo ^

22- Callia, figlio di Calliade, non deve essere confuso con Callia, figlio di Ipponico, personaggio del Protagora. Era un generale ed un uomo politico di Atene. torna al testo ^

23- Su Zenone di Elea, cfr. Fedro, 66. La mina era una moneta ateniese, del valore di 100 dracme (cfr. nota 46). torna al testo ^

24- Tipica espressione platonica per designare i re dei Persiani. torna al testo ^

25- Midia, che era un personaggio malfamato ed un demagogo, faceva l'allevatore di quaglie; Aristofane, Gli uccelli, 1297, lo denomina "quaglia". L'ironia di Socrate è molto forte, dato che anche Alcibiade era un appassionato allevatore di quaglie, come molti giovani ateniesi, che se ne servivano per combattimenti e giochi simili a quelli dei galli. torna al testo ^

26- Dato che gli schiavi avevano la testa rasata, quando venivano liberati, per un po' di tempo avevano una capigliatura che ricordava la loro condizione precedente. torna al testo ^

27- Il più celebre eroe della mitologia classica, figlio di Zeus e di Alcmena, famoso soprattutto per le dodici Fatiche. torna al testo ^

28- Mitico fondatore ed eponimo della stirpe reale persiana detta degli Achemenidi. Secondo Erodoto, Storie, VII, 11, era padre di Teispe, antenato di Ciro e Dario. torna al testo ^

29- Eroe, figlio di Zeus e di Danae, antenato diretto di Eracle; fra le sue imprese più celebri si ricorda l'uccisione della Gorgone e la liberazione di Andromeda, che sposò. torna al testo ^

30- Eurisace, figlio di Aiace (cfr. nota 39), dopo la fune della guerra di Troia tornò a Salamina d'Attica, patria del padre. Secondo una tradizione, consegnò l'isola di Salamina agli Ateniesi, e questo gli fece ottenere diritto di cittadinanza. Così, la famiglia di Eurisace si stabilì ad Atene, dove ebbe, nella sua discendenza, Milziade, Cimone, Alcibiade e Tucidide. torna al testo ^

31- Secondo il mito fu un Ateniese, della famiglia reale discesa da Cecrope, padre di Icaro. Gli è stata attribuita l'invenzione di molti strumenti, quali il cuneo, la scure e la livella e di statue semoventi. A Creta costruì per Minosse il Labirinto, dove fu rinchiuso per aver salvato Teseo, suggerendogli uno stratagemma. Dedalo fabbricò allora delle ali di cera, grazie alle quali fuggì con Icaro. Sofronisco, padre di Socrate, era scultore, e, pertanto, aveva come protettore Dedalo. Con questo, l'autore del dialogo non solo vuole contrapporre in modo ironico alla stirpe di Alcibiade la propria, ma anche paragonare la capacità dialettica di Socrate all'abilità di Dedalo. torna al testo ^

32- Città del Peloponneso, capitale dell'Argolide. torna al testo ^

33- Isola del golfo Saronico, vicino ad Atene, presso la quale, nel 480 a.C., la flotta greca, guidata da Temistocle, sconfisse Serse I. torna al testo ^

34- Aiace Telamonio, figlio del re di Salamina, Telamone. Partecipò alla guerra di Troia. Omero, Illiade, III 226-229, lo presenta come un guerriero di statura tale da sopravanzare tutti della testa e delle spalle. Di grandissimo coraggio, guidava gli Achei all'attacco e ne copriva la ritirata. torna al testo ^

35- Isola del golfo Saronico, vicino ad Atene. torna al testo ^

36- Artaserse I, figlio di Serse I (cfr. nota 4), regnò per quarant'anni, dal 464 al 424 a.C. torna al testo ^

37- Si tratta di cinque magistrati di Sparta, che venivano eletti ogni anno dall'Assemblea popolare e godevano di ampi poteri. torna al testo ^

38- Affermazione proverbiale, attribuita a Platone commediografo. torna al testo ^

39- La nutrice di Alcibiade, originaria della Laconia, secondo una fonte si chiamava Lanica. torna al testo ^

40- Zarathustra, capo religioso della Media, vissuto a quanto pare, nel VII-VI secolo a.C. Dopo le guerre persiane cominciò a diffondersi in Grecia la sua fama, accompagnata, però, da notizie molto incerte, come questa dell'Alcibiade maggiore, che lo considera figlio di Ozmud. torna al testo ^

41- Cfr. Plutarco, Vita di Licurgo, passim. torna al testo ^

42- Regione sud-occidentale del Peloponneso, in cui si trovavano le città di Messene, Ira, Delo. torna al testo ^

43- Regione sud-orientale del Peloponneso, avente per capitale Sparta. torna al testo ^

44- Cfr. Esopo, Favole, 246 (edizione Halm). Aristotele, Politica, I 9, osserva che le ricchezze a Sparta erano distribuite male: alcuni cittadini erano estremamente poveri altri molto ricchi. torna al testo ^

45- Amestride era moglie di Serse I e madre di Artaserse I. torna al testo ^

46- La mina valeva cento dracme, e la dracma una lira d'oro. Il pletro attico corrisponde a 874 mq, Erchia era un demo (una circoscrizione) dell'Attica. torna al testo ^

47- Leotichide, re di Sparta, aveva vinto i Persiani a Micale nel 479 a.C. Agide II, re di Sparta, combatté contro Atene durante la guerra del Peloponneso. Se davvero il dialogo è ambientato nel 431, si tratterebbe di un anacronismo di Platone, dato che Agide salì sul trono nel 427. torna al testo ^

48- Fin dall'antichità si ignorava l'autore della massima "conosci te stesso", scritta su una colonna del tempio di Delfi. La si attribuiva ad Apollo stesso, o alla Pizia Femonoe o Fanotea, oppure ai Sette Saggi (in particolare a Chilone, Talete, Solone, o Biante), oppure ad Omero. torna al testo ^

49- Sul divieto del dio, cfr. il Prologo. A.Carlini (nella nota 1 a p.184 del volume Platone, Alcibiade, Alcibiade secondo, Ipparco, Rivali, Torino 1964), afferma che il termine presentato in 124 C 10, è una manipolazione neoplatonica, da intendere come "manifestazione della divinità", ma in questa parte, come in 105 A, Socrate sta proprio svelando i veri intenti di Alcibiade. torna al testo ^

50- Le righe contenute in 128 A 13 _ B 1 si trovano soltanto in Stobeo ed Olimpiodoro. torna al testo ^

51- Cfr. R.E. Allen, Note on Alcibiades I, 129 B 1, "American Journal of Philology", 83 (1962), pp. 187-190. torna al testo ^

52- Come è noto, il padre di Socrate si chiamava Sofronisco e faceva lo scultore, mentre la madre, di nome Fenarete, era levatrice. torna al testo ^

53- Omero, Iliade, II 457. torna al testo ^

54- Questo "altro" simile alla sapienza, potrebbe consistere in massime di pensatori, oppure in oracoli. torna al testo ^

55- Il passo di 133 C 8_17 sembra essere un'interpolazione di carattere neoplatonico. torna al testo ^

56- Cfr., sopra, 131 B. In questo invito a curarsi autou te kai ton autou, viene adombrato un concetto cardine della politica platonica, il ta eautou prattein, svolgere la propria funzione, su cui si basa la distribuzione delle funzioni delle classi e la definizione della giustizia nella Repubblica. Cfr. W. Jager, Paideia. La formazione dell'uomo greco, vol. II, Firenze 1954 e 1978, p.158. torna al testo ^

57- Carlini, Studi ..., alle pp. 172-174 considera 134 D 1 - E 7 un'interpolazione neoplatonica. Cfr. anche 133 C. torna al testo ^

58- Come si vede, ad esempio, in Repubblica, IX 571 A - 547 B secondo Matone chi ha natura tirannica non sa comandare a se stesso. torna al testo ^

59- Alcuni ritenevano che le cicogne nutrissero i propri genitori, una volta diventati vecchi. torna al testo ^

 

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Testo inserito in data: domenica, 17 gennaio 1999.

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