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Alcune riflessioni su Satana e l'inferno

di Giovanni Monastra

«Il male è niente perché se fosse qualcosa lo potrebbe fare Colui che può fare ogni cosa» (Boezio, Phil. cons., III,12).

I documenti ecclesiastici volti a definire il "male" nei suoi vari aspetti, in riferimento sia alla figura del demonio, sia alla dimensione del suo "regno", costituiscono un motivo conduttore degli interventi delle gerarchie della Chiesa, interventi che ultimamente si sono resi più frequenti.
A parere di chi scrive alcuni di questi documenti appaiono disarmanti per la loro banalità e ingenuità. Inoltre si assiste a un fiorire di teorie talora anche contrastanti, che creano confusione e aumentano l'incredulità dei "fedeli" circa un tema che, invece, richiederebbe di essere affrontato al di fuori di ogni emotività e sentimentalismo. Quindi andrebbero abbandonati i toni terroristici e minacciosi, ma anche le mielose soluzioni facili, secondo le quali il concetto di "dannazione" sarebbe "superato". Infatti, seguendo la concezione storicista ed evoluzionista della religione, il vero Dio è solo amore, quindi "satana" e l'"inferno" sarebbero solo un vuoto retaggio di una Chiesa retrograda e -neanche a dirlo!- "medievale", da lasciare per sempre alle spalle.
Di fronte a certe posizioni apparentemente "innovatrici" delle autorità del Cattolicesimo ci sembra indicativo riportare le dichiarazioni del pastore e teologo valdese Giorgio Bouchard, sintetica esemplificazione di quel pregiudizio antimedievale sulla cui grossolanità preferiamo sorvolare:

«Vedo l'inizio della fine del Medio Evo, in cui si riteneva che avessimo bisogno di aver paura, non so in base a quale fondamento religioso. È un avvio di superamento della perdurante Weltanschauung medievale consacrata da quel capolavoro che è l'Inferno di Dante. Quella era poesia molto umana, e datata»1.

A commento diciamo solo che il nostro loquace teologo, evidentemente, ignora del tutto le interpretazioni in chiave simbolica della Divina Commedia e i suoi legami, di carattere intellettuale, e dottrinale, con il mondo islamico!

A fronte di questo dibattito, che, nei termini in cui viene condotto, crediamo interessi pochi intimi, tra cui non ci identifichiamo di certo, rimane una altro fatto che dovrebbe indurre a riflettere: anche tra gli stessi cattolici in Italia, secondo le ultime statistiche, il 60% dichiara di non credere più all'esistenza dell'inferno, mentre il 20% non solo ne è convinto, ma pensa che si tratti di un vero e proprio luogo fisico di punizione e di tormenti eterni. Così, all'interno del cosiddetto "gregge dei fedeli", incredulità e indifferentismo di tipo laicista si trovano in posizione di assoluta preminenza fianco a fianco con forme grossolane di reificazione del "regno di Satana"! Se per il nostro paese questa situazione può essere relativamente nuova, per l'area culturale anglosassone essa era già una realtà negli anni trenta.

Certamente il tono e i contenuti di questo dibattito sono assai deludenti, mancando del tutto ogni inquadramento di tipo metafisico. Rimane comunque il fatto che l'argomento riveste un rilevante interesse intrinseco, una volta che lo si spogli di tutti gli elementi contingenti di cui abbiamo fornito alcune esemplificazioni. Volendolo porre come oggetto di riflessione dovremmo iniziare con alcuni interrogativi fondamentali.

Cosa è una attrazione "infera", da dove nasce? È di origine esterna o interna a noi? E in definitiva, possiamo chiederci, cosa è il Demonio, o Satana, e "dove" si situa, in senso metaforico, l'Inferno?

Sappiamo che la "condizione umana" è stata definita con parole e immagini diverse, ma in modo analogo dalle varie tradizioni metafisico-religiose. Giudaismo e Cristianesimo parlano di caduta, mentre l'Islam evidenzia la ribellione dell'uomo come causa della perdita dello stato primordiale. A sua volta il Taoismo valuta il nostro stato attuale in termini di disequilibrio o disarmonie. Il Vedanta pone invece l'accento sull'illusione, il buddhismo sull'ignoranza. Questi stati interiori dell'uomo velano il Reale e, se sono preminenti, danno consistenza autonoma al mondo fenomenico come essenza in sé risolvibile del tutto nella dimensione materiale, fisica, senza radici trascendenti, divine. Volendo ricorrere a una già nota metafora ripresa dal mondo della geometria, a cui hanno fatto riferimento in alcune loro conferenze Nicolò Dalla Porta e Swami Matthias, la condizione in cui ci troviamo nel nostro stato dell'essere può venire raffigurata come quella di un punto che giace sulla circonferenza di un cerchio, il cui centro è il Principio Supremo, l'Assoluto, o Dio, centro che la circonferenza della sfera umana ha in comune con altre circonferenze, simboleggianti altri stati dell'essere, di livello differente. Il male è costituito dall'allontanarsi dal Principio Supremo (tendenza tamasica, in termini indù): si segue la tangente alla circonferenza, si abbandona la stessa dimensione normale dell'uomo "in ordine" e si rende sempre più tenue ogni riferimento a Dio, avendo rifiutato di seguire la strada "ascendente" lungo il raggio, verso il centro. Simbolicamente si potrebbe pensare che questo "prendere per la tangente" sia la conseguenza di un progressivo aumento di velocità dell'uomo-punto sulla sua circonferenza, quasi come un veicolo che ad alta velocità su un circuito automobilistico, a un certo punto, esca in curva allontanandosi dal percorso normale. È come se questo veicolo, e il suo guidatore, fosse in stato "febbrile", senza autodominio, privo quindi di un "centro". Il cerchio, in questo contesto, è simbolo di completezza, invece la retta -la tangente nel presente caso- diviene simbolo di incompletezza, dissipazione, allontanamento e separazione. È la figurazione geometrica del continuo e pesante processo di periferizzazione della nostra esistenza, caratteristico dell'era moderna. Asserendo questo non si sottintende che l'uomo premoderno, invece, fosse naturalmente attratto verso il Centro, seguendo magari una virtù innata e poi perduta negli ultimi tempi, secondo una concezione che definiremmo "spiritualista-roussoiana". Piuttosto si vuole sottolineare il fatto che nelle società permeate dal sacro, oggi quasi scomparse, ogni uomo veniva reso cosciente del suo stato esistenziale di "privazione" dovuto proprio al suo stato dell'essere in quanto tale, e gli veniva anche indicato un preciso itinerario da seguire per conseguire la reintegrazione. Per cui ognuno, volendolo, poteva servirsi di una serie di "appoggi" e di "aiuti". Nell'era moderna, invece, tutto ciò si è sempre più affievolito: in definitiva sono venuti a mancare gli argini.

Ma -tornando al discorso principale- da dove nasce questa tensione verso la "separazione" e la fuga dal Centro, visto sempre più come vincolo oppressivo e insopportabile, giogo di cui liberarsi, da cui emanciparsi, secondo le aspirazioni del pensiero antireligioso (anche antico)? Nel modo più elementare di esprimersi, specie in Occidente, il "male" viene fatto risalire a una entità quale il Demonio, simbolo e personificazione di tutto ciò che è negativo. Ma è corretta questa maniera di esprimersi? Non comporta una grave pericolo di dare consistenza ontologica al male, stabilendo un dualismo assoluto, e non relativo e funzionale? Questo pericolo esiste, a ben vedere, anche se tale concezione diffusa può svolgere un suo utile ruolo, pedagogico e normativo. L'importante è essere coscienti che siamo in presenza di una posizione schiettamente exoterica, popolare, lecita al suo livello, ma che va approfondita. Infatti l'exoterismo sta all'esoterismo come lo sguardo che può cogliere solo la superficie delle acque di un lago sta allo sguardo che sappia vedere anche ciò che giace nelle sue profondità: il secondo non nega o annulla il primo, ma lo integra e lo completa. Sul filo di questo approfondimento dobbiamo chiederci se, in definitiva, Satana sia una realtà in sé, come un ente esterno a noi, o piuttosto costituisca il simbolo di una stato di oscuramento, di buio interiore agitato da bramosie e desideri senza Centro, che tutti noi viviamo. Per cui si potrebbe dire che il Demonio è plurale quanti sono gli esseri umani. A tale proposito si può ricordare una frase attribuita a Satana in uno dei Vangeli: «Il mio nome è legione perché siamo molti» (Marco, 5, 1-10). E ancora: potremmo situare l'origine di questo "male" nella dimensione animica, "sottile" dell'uomo quando questa pretende di rendersi autonoma, indipendente dalla sfera divina, ribellandosi ad essa, come suggerisce Ananda Coomaraswamy in un suo saggio2 pieno di intuizioni folgoranti?.

Nella antropologia tradizionale è nota la tripartizione corpo-anima-spirito, che ritroviamo in tutti i testi sacri. Attribuire alla "carne", il corpo, la causa del "male" è solo un modo di dire improprio, in quanto la carne manca di "volere", base di ogni scelta e quindi di ogni eventuale errore, essendo essa solo uno strumento con una sua logica interna, certo, che però si situa al di sotto della sfera della decisione, e quindi dei valori. Altrettanto si può affermare dei sensi, i quali costituiscono un modo diverso di parlare del mondo della nostra fisicità, a cui non si può imputare né il bene, né il male. Essi sono il mezzo di conoscenza del mondo al loro livello. Niente di più, niente di meno. Solo un malinteso ascetismo può coinvolgerli in un discorso che deve situarsi al di sopra di essi. Tornando alla tripartizione prima ricordata, è ancor più evidente che lo Spirito, scintilla divina che è, almeno in potenza, in tutti noi, costituisce in sé l'antitesi del male, né può esistere una componente spirituale "malefica", essendo lo Spirito il Testimone della Via, della Verità e della Vita Eterna (per cui riesce molto difficile condividere quanto affermato nei concili Lateranense IV e Vaticano I circa la natura spirituale dei demoni). Ecco quindi stagliarsi all'orizzonte della nostra interiorità, spesso angosciata, il vero antagonista, l'oppositore dell'Ordine Divino, realtà di rango ben superiore alla semplice morale sentimentale a noi consueta e così rassicurante: tale antagonista è l'anima, essenza "sottile" della individualità umana. Va ricordato, infatti, che l'individualità è motivata e perpetuata dal "volere", dal "bramare" oggetti e stati psichico-emotivi per loro natura instabili: la causa di ogni brama è la non-conoscenza metafisica (avidya), cioè il non saper discernere, in primo luogo, tra ciò che è e ciò che diviene, tra ciò che ha realtà intrinseca e valore e ciò che non possiede siffatti requisiti. La radice trascendente di ogni ricerca e di ogni volere risiede nella nostra carenza di Essere, nella nostra separazione dal Centro: però una cosa è l'atto del cercare, in se neutro e spiegabile nei termini di "privazione", un'altra il suo contenuto. Quest'ultimo può, paradossalmente, convertirsi in un atto luciferino laddove l'anima, nella sua superbia agisce senza la guida dello spirito. Allora la ricerca verso l'Alto si tramuta in brama tamasica di tutto ciò che è inconsistente (di ciò che non possiede se stesso, come può farlo solo Dio): desiderio senza fine, frenesia, volubilità, ansia febbrile. Tale brama è assenza di essere. Cosicché diviene chiaro il senso di quanto asseriva Plotino nelle Enneadi (I, 8,3) parlando della realtà, in tutti i suoi livelli, e del Male:

«Se tali sono gli esseri, se tale è la realtà che è al di là degli esseri, il male non sarà né negli esseri, né in quella realtà trascendente: ché buone sono queste cose. Resta dunque ch'esso, poiché esiste, esista nel non-essere [inteso come privazione - n.d.r.] e sia in certo modo la forma del non-essere, poiché esso è nelle cose mescolate di non essere e partecipanti del non-essere [...] si può giungere a un'idea del male [concependolo] coma la mancanza di misura rispetto alla misura, [...] come l'informe alla causa formale, come l'essere sempre deficiente all'essere che basta a se stesso, come sempre indeterminato, per nulla stabile, completamente passivo, insaziabile, povertà assoluta: e son questi non i suoi caratteri accidentali, ma la sostanza stessa»3.

In termini morali: assenza di Bene, seguendo Sant'Agostino (De Civ.Dei, XI, 22).

Dalla ricerca del centro lungo il raggio si passa alla frenetica corsa verso la conquista del mondo visto come bene assoluto e dispotico. Si corre vertiginosamente sperando di convertire la quantità in qualità, l'avere in essere. Così, a un certo punto, si esce dalla circonferenza, si perde ogni contatto con il Centro, contatto prima mantenuto, almeno virtualmente, attraverso il raggio. Ecco l'Anima, la tentatrice, Satana (l'oppositore, in senso etimologico) che risiede in tutti noi (ricordo per inciso che i malefici Asuras dell'induismo sono essere legati, non a caso, al mondo vegetativo, sostanzializzato da una componente "sottile" e sotterranea). Simbolicamente è stato affermato (ad es. dal grande sufi Jalal-ud-Din Rumi) che bisogna uccidere l'io individuale, o anima («la più grande dei nostri nemici»), perché il vero Sé, lo Spirito, sia la nostra unica guida (divenendo Signori di noi stessi). In un'immagine diversa, ma dallo stesso significato finale, contenuta nella Bhagavad Gita, Khrisna, il Sé, sta sul cocchio, il corpo, e svolge la funzione di maestro dell'auriga Arjuna, l'io, il quale guida i cavalli che rappresentano i sensi: anche qui la sapienza e la conoscenza, di ciò che trascende il divenire, risiedono nel Sé, che insegna la verità all'io perché segua un retto agire e non si lasci confondere dai falsi e oscuri pensieri che lo confondono e lo turbano. Solo così, secondo l'insegnamento tradizionale, distruggeremo il buio di un cercare affannoso e senza meta, né senso: il male come privazione di luce, cioè di essere, non come essenza in sé. Se l'anima, il nostro piccolo io, quando vuole rendersi autonomo diviene Satana, la nostra interiorità animica diviene a sua volta l'Inferno, da cui usciamo se e quando siamo capaci di aggiogare i nostri desideri, dare a essi una Guida che sappia veramente dove andare. Ecco, tra l'altro il grande equivoco moderno del cosiddetto ed esaltato "rafforzamento della personalità" che, nei termini della psicologia attuale, significa solo "rafforzamento dell'individualità" e, quindi, dell'io, dell'anima, con tutto quel che ne consegue sul piano spirituale nel senso di indurimento verso l'Alto e fuga verso falsi obiettivi, idoli. Ma va anche evidenziato che vincere e aggiogare l'anima, cioè ucciderne la superbia che la vuole rendere autonoma e indipendente da ogni realtà superiore, non significa reprimere i desideri, dal di fuori, perché ciò spesso è peggio: infatti equivale quasi sempre all'atto di chi, volendo spegnere un grande fuoco, vi soffiasse sopra. Otterrebbe solo di incrementarlo e propagarlo. Invece bisogna togliergli il combustibile per esaurirlo, così come bisogna togliere la causa del desiderio per spegnere la brama scomposta dell'anima. Solo un procedimento "interno" può agire su quel piano. La repressione si dimostra solo controproducente ed è l'opposto del vero dominio. In tal modo appare chiaro anche il senso della redenzione dello stesso Satana, cioè dei tanti Satana -realtà plurale!- che dimorano dentro tutti noi: è una possibilità nella storia interiore di ogni essere umano che si può verificare, proprio laddove l'anima, "uccisa" nella sua superbia (ma ogni morte è simbolicamente anche una rinascita), viene ricondotta al suo giusto posto e ruolo, reintegrando e unificando noi stessi in una dimensione di livello spirituale superiore.

Concludiamo ricordando uno scritto di Suso, un mistico tedesco in cui sono sintetizzati, almeno in parte, alcuni dei punti sopra esposti. È la descrizione di un dialogo tra un discepolo e un uomo apparsogli in una lucida visione:

«- "Donde sei tu?" - chiede il discepolo.
- "Non venni mai da alcun luogo", rispose l'altro.
- "Dimmi, chi sei tu?"
- "Io non sono" [...]
- "Come ti chiami?"
- "Mi chiamo il selvaggio senza nome" [...]
- "dove giunge il tuo discernimento?"
- "A una libertà affrancata."
- "Dimmi, che chiami tu una 'libertà affrancata'?"
- "Quando l'uomo vive a suo capriccio, senza distinzione, senza nessuno
sguardo davanti e dietro"
»4.

Ma Suso, svelando il fondo malefico e ingannatore di questo parlare suadente e, all'apparenza, profondo -quasi una parodia di alcuni aspetti del pensiero della "teologia negativa"- fa capire che la volontà è libera solo quando risulta affrancata dalla necessità di volere, dal capriccio. E il volere, inteso come "brama", risiede nell'anima, nel suo sottofondo di inquietudine che permane fin tanto che essa vuole essere sufficiente a se stessa.

 


Note

1- «Corriere della Sera», 1 Agosto 1999, p. 25: Inferno: finisce il tempo della paura? di C. Medail. torna al testo ^

2- cfr. A. K. Coomaraswamy, Metaphysics, Princeton 1977, pp. 23-33. torna al testo ^

3- Plotino, Enneadi (trad. di G. Faggin), Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, vol. 1, p. 247. torna al testo ^

4- E. Suso, Il libretto della verità (trad. di B. de Blasio), Mondadori, Milano 1997, p. 59. torna al testo ^

 

Giovanni Monastra

 

 

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Articolo inserito in data: venerdì, 2 ottobre, 1999.

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