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La politica, la globalizzazione, i fondamentalismi e il bene comune

di Eduardo Zarelli

 

Politica e globalizzazione

Tra gli aspetti più contraddittori del movimento "antiglobalizzazione", vi è la spiccata ideologizzazione cosmopolita che pretende di ottenere i "frutti civili" della uniformizzazione planetaria, modificando il sistema economico che li genera. In realtà, l'allargamento dei diritti e la diffusione universale e sociale della giustizia e della conoscenza sono obiettivi condivisi, se pur con modalità "impolitiche", dall'ideologia liberista, che conduce le "danze" dello sviluppo del mercato unico globale. Risulta quindi palese l'inconsistenza della dialettica destra/sinistra, che anima la meccanica progressista della società industriale.

In effetti, il dibattito sulla globalizzazione consente di tentare un'approssimazione concettuale sulle interpretazioni del "politico" nell'ambito della tarda modernità. Vorremmo cioè focalizzare alcuni riferimenti teorici di immediata attualità, per indicare i limiti e le aspettative di un impegno coerente in tale dimensione.

Credo si possano condividere con generale credibilità le principali caratteristiche della modernità. Per sommi capi, sul piano politico si è caratterizzata con l'affermazione dello Stato nazione centralistico, in piena rottura con il pluralismo del mondo feudale e, in alcuni ambiti territoriali europei anche comunale, di quei "corpi intermedi" che ne rappresentavano l'eredità sociale. La conseguenza si connota con l'individualismo e la società di massa, con i suoi conflitti ideologici interpretati dai partiti, liberali, democratici o totalitari.

Sul piano economico la centralità industriale si sostanzia con il compimento nazionale dei mercati, colonialistici, competitivi e quindi, in alcuni casi, imperialistici. Successivamente, nel secondo dopoguerra, il fordismo rende possibile per il capitale l'integrazione progressiva del proletariato in un indefinito ceto medio consumistico, sotto la tutela dello stato provvidenziale, che in nome della cooperazione individualistica distrugge le solidarietà organiche comunitarie e gli usi vernacolari, per dirla con un termine caro ad Ivan Illich1. Ovviamente tutto questo ha un costo ecologico devastante. La libertà umana diminuisce in maniera direttamente proporzionale allo sviluppo tecno-scientifico, che imprime un sigillo di necessità a uno sviluppo antibiologico. Cultura e natura si divaricano come non mai nell'evolversi della civilizzazione. L'esaurimento delle "risorse" naturali, le modificazioni climatiche, la subsidenza dei suoli, la riduzione dell'ozonosfera, della biodiversità, l'urbanizzazione, creano una condizione unica ed epocale per il pianeta intero. Ideologicamente, la modernità è sinonimo di disincanto e secolarizzazione. Gli individui compongono masse anonime, mobilitate da grandi narrazioni storicistiche: l'uguaglianza consegue alla libertà, già affermatasi in forme egemonicamente utilitaristiche.

I termini della discussione intorno alla globalizzazione agiscono sul perno del superamento della stessa modernità. La mondializzazione, fenomeno eminentemente tecnologico e finanziario, rende insufficienti gli Stati. Per dirla con de Benoist, troppo piccoli per il respiro internazionale dei tempi, troppo grandi per i problemi reali della gente2. Non a caso, si assiste ad un potente movimento di "ritorno al locale". Se le ideologie della modernità avevano spiegato e piegato universalisticamente il locale, all'oggi, in controtendenza, si torna a guardare l'universale da prospettive locali, minimalistiche, ma a misura d'uomo e quindi di natura. D'altronde l'insicurezza cresce con l'incertezza del progresso, la sua protervia ripropone il "limite" come argine alla "volontà di potenza" industriale, che con la cibernetica e le biotecnologie arriva a manipolare le stesse interazioni, che sono all'origine della coerenza elettrodinamica quantistica finalistica del vivente.

Sul piano ideologico, le "grandi narrazioni" cedono il passo a "piccole narrazioni" differenziali e relativistiche. Le teorie astratte sono sostituite da preoccupazioni modeste, ma concrete. Le istituzioni, sempre più lontane e burocraticamente impermeabili, si svuotano di senso e ampliano una mancanza di significato che favorisce la ricerca di identità, oltre una uguaglianza reificata dalla massificazione e il consumismo.

In tale contesto, la politica della modernità, fatta di rapporti di forza nella rappresentanza degli interessi socio-economici, compie il suo destino e perde la sua preminenza. Si può parlare esplicitamente di spoliticizzazione dei processi decisionali data la autoreferenzialità della tecnica per risolvere i problemi che ne caratterizzano il funzionamento.

Marco Revelli, nel suo ultimo Oltre il novecento3, nella prospettiva operaista che caratterizza la sua paternità ideologica marxista, denuncia la scomparsa della centralità politica nel cambiamento sociale, dato il fallimento del prometeismo occidentale imperniato sulla condizione del lavoro. Un attento sociologo come Franco Cassano, nel suo recente Modernizzare stanca4, ribalta i criteri che identificano lo sviluppo e parla apertamente di ritorno nei limiti pre-economici della convivialità umana, quali uniche finalità sociali condivisibili. Ma in questo filone, con dovuti distinguo di prospettive, non è una forzatura inserire Tronti, Barcellona, Salsano (traduttore di Serge Latouche in Italia). Da un versante ideologico opposto, Alessandro Campi rivendica il "necessario" ritorno della politica proprio per impedirne l'eutanasia economicistica. Come questo possa verificarsi avendo per referente il liberalismo conservatore lo lasciamo dimostrare all'autore5. Ma anche una posizione anticapitalistica, come quella di Costanzo Preve6, attacca giustamente Toni Negri7, e la sinistra radicale tutta per l'idiosincrasia con le identità nazionali(tarie) relativamente alla globalizzazione, ma rivendica il politico in un conflitto sociale classista, che appare palesemente ideologico.

Sulla scia di Carl Schmitt, sappiamo che l'"autonomia del politico" nasce, nella modernità, dalle categorie di amico/nemico. È chiaro che queste categorie vengono dettate dal realismo machiavellico e dal disincanto nichilistico. In realtà, più sottilmente, per conservare il salvabile rispetto a un concetto di sovranità che non ha più legittimità spirituale8. Ma si può continuare ad evocare demiurgicamente il "conflitto" per generare il "politico" nella post-modernità o tarda-modernità, che dir si voglia, senza cadere nella inconsistenza teorica e pratica? Possono gli oppositori al pensiero unico, di destra e di sinistra, continuare a sentirsi "orfani del novecento" proponendo teoria e pratica di un contesto irreversibilmente dato? Probabilmente temono di perdere una identità, che psicologicamente significa "appartenenza" e moralmente "resistenza", elementi stimabili eticamente ma inani politicamente. In effetti, le debite analisi di Revelli confluiscono in un indefinito "volontarismo dei diritti" che tanto si approssima a quell'anestetico "pensiero debole" del suo conterraneo Vattimo. Lo stesso Cacciari, uomo di profonda cultura filosofica, esegeta della "crisi", sembra non avvertire lo scarto di coerenza tra teoria e pratica e, per simbiosi al realismo nichilista, si limita a prospettare l'amministrazione civica della globalizzazione. È consapevole che la sovranità non è rintracciabile nello Stato moderno, intravede la dimensione locale come spazio d'azione post-moderna, ma non riesce a declinare la modernità tutta, fuori dalla razionalizzazione9. Eppure, è ormai di dominio anche laico, il risvolto inquietante del disincanto dell'homo faber. Emanuele Severino e Umberto Galimberti hanno approfondito nel modo più radicale il problema della tecnica, ritenuta non più un mezzo a disposizione dell'uomo ma la condizione ormai indispensabile per raggiungere qualsiasi scopo. L'uomo è subordinato al continuo potenziamento e affinamento dell'apparato tecnico, che assurge a vero soggetto del divenire sociale.

"Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato --dice Galimberti-- la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi".10)

La tecnica, da mezzo è divenuta un fine. E poiché non si dà più un orizzonte capace di garantire l'ordine del mondo, che non dipende più dall'essere ma dal "fare" tecnico, l'efficacia diventa l'unico criterio di verità. L'alienazione marxiana vedeva ancora l'uomo come soggetto, al centro di rapporti economici di produzione che lo rendevano schiavo ma consentivano di profetarne utopicamente la liberazione. L'alienazione tecnologica, che vede solo nella tecnica la liberazione dell'uomo dai propri limiti, non offre alcuna speranza di salvezza.

Da questo sgomento nasce l'unico impegno politico che può caratterizzare in senso alto un destino altro dal determinismo occidentale: il reincantamento del mondo. La politica deve essere espressione di un bene comune condiviso, senza il quale non c'è conflitto capace di consentire l'oltrepassamento del nichilismo. Senza una metanoia, un mutamento di "paradigma" non è possibile coinvolgere nessuna coscienza nell'abbandono di un sistema di vita edonistico che ripone la forza del suo potere nella condivisione collettiva dei suoi fini utilitaristici individuali.

I governi non hanno più potere perché è la governabilità stessa che viene meno a ogni livello. Se la razionalità scientifica fornisce gli strumenti concettuali e materiali per la dissociazione del reale, l'irrazionalità economica priva la politica di credibilità e quindi di un reale consenso sociale. L'imprevedibilità scientifica ed economica genera indeterminatezza politica, determina un processo sfrenato di produttivismo consumistico, ingovernabile da destra e da sinistra, che imprime una crescita esponenziale al degradare della biosfera, dell'uomo e della cultura. Un processo che, facendo leva sul soddisfacimento di bisogni materiali e istintuali, effettivi o artificialmente indotti, genera l'illusione di massa d'una libertà di scelte finalizzate al consumo. Ma la logica contro natura della mercificazione del mondo stringe alla libertà un cappio fatale.

Con la transizione tra modernità e postmodernità, il paradigma materialistico e riduzionistico perde di credibilità. Questo paradigma consiste in una quantità di idee e valori radicati nella mentalità comune, fra cui la visione dell'universo come sistema meccanico composto da mattoni elementari, la visione del corpo umano come macchina, la visione della vita sociale come competizione individuale per l'esistenza, la fiducia in un progresso materiale illimitato da raggiungere attraverso la crescita economica e tecnologica. Fatalmente, tutti questi assunti sono messi in discussione dalla perdita delle certezze del progresso e, di fatto, rendono plausibile la necessità di una loro revisione radicale. Possiamo definire il nuovo paradigma come olistico. Scrive Edgar Morin a tal proposito che: "non soltanto il tutto è più della somma delle parti, ma è la parte che, grazie al tutto, diviene più della parte"11. Proprio quando la frantumazione specialistica delle attività umane sembra aver distrutto irrimediabilmente l'unità del sapere, i nuovi statuti epistemologici di fisica e biologia si riportano sulle tracce della metafisica sapienziale12, e convergono nel disegnare una visione del mondo né deterministica, né indeterministica: aperta alla libertà creativa ma solo nel rispetto di vincoli dati nelle interazioni vitali. Possiamo anche chiamarlo una visione ecologica, se conferiamo all'aggettivo "ecologico" un significato più ampio e profondo di quello usuale. Una consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri umani e sociali dipendiamo e, contemporaneamente, incidiamo sui processi ciclici della natura. La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l'impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Cadendo il velario delle pseudoconcretezze utilitaristiche e sensistiche, indispensabili allo sviluppo materiale, si rende possibile un'etica comunitaria cosmogonica, laica e religiosa ad un tempo, che ri-anima il mondo13.

Se c'è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite. Mentre la globalizzazione (il mondo visto come un tutt'uno suddiviso in parti atomicistiche manipolabili) è un prodotto della modernità e degli strumenti scientifici, il localismo è il normale modo di vedere dell'uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata, possibilità di conoscenza limitata. Si può dire che il localismo è il modo di pensare ecologico per eccellenza, dato che lega l'uomo alla natura, al territorio e non ad una sua visione "costruita", pensata, , ideologica, virtuale, artificiale. Il legame con un territorio dato, rende uomini e popoli consapevoli del concetto di "limite".

L'essenza di una prospettiva olistica sta nella volontà di riconnettersi col proprio luogo, sottraendolo --usando le parole di Serge Latouche-- al controllo della megamacchina14, per ristabilire il corretto rapporto con il mondo naturale. È possibile ritrovare la connessione intima con l'intera "trama della vita" e rinunciare a porsi in posizioni di dominio --peraltro apparente e temporaneo-- ricreando reciprocità ed armonia tra l'uomo e la natura. È possibile, però, solo se si torna ad essere abitanti del luogo, se cioè si recuperano solide radici tramite le quali acquisire una nuova consapevolezza del Pianeta come essere vivente. Si tratta di sviluppare una sensibilità ecocentrica con cui costruire, nel ventre stesso della società dello scambio, una rete di ambiti di reciprocità in cui possano svilupparsi comunità locali rigenerate --in grado di autogovernarsi e di rielaborare o ritrovare la propria cultura indipendente dalla omogeneizzazione globale-- legate strettamente alla compatibilità ambientale15.

La megamacchina opera per affermare la propria cultura unica, il suo stile di vita universale. Il suo obiettivo è quello di ridurre tutti i popoli ad una unica grande massa omogenea e quindi malleabile a piacimento. Cerca di raggiungere questo obiettivo con la metabolizzazione e sterilizzazione culturale, sociale e politica. Se la dimensione mondiale dei processi in atto non può essere realisticamente rimossa, si avrà sviluppo locale dove la società locale saprà resistere attivamente alla globalizzazione costruendo reti solidali. In tal senso adoperiamo il controverso neologismo glocalismo16. La globalizzazione esclude l'autosostenibilità del locale imponendo la competitività contro la cooperazione, lo sfruttamento delle risorse contro la valorizzazione del patrimonio identitario, la polarizzazione economica contro la socializzazione dell'economico. Il locale, come comunità delle comunità, è l'unica credibile eterogenesi dei fini della globalizzazione, del suo centralismo tecnocratico, della sua mercificazione economica e omogeneizzazione culturale. La soppressione delle differenze, comunque perseguita, oltre ad essere omicida --perché alla biodiversità deve necessariamente corrispondere la diversità culturale-- genera mostri con l'esaltazione della diversità fine a se stessa, autoreferenziale, che si percepisce superiore, misantropica, e quindi aggressiva. L'integralismo, il neo-tribalismo e lo sciovinismo vanno di pari passo e, più probabilmente al traino, della schiacciante arroganza egemone dell'occidentalizzazione del mondo.

Logica conseguenza di una prospettiva olistica è il quadro complessivo in cui sviluppare i molteplici cerchi concentrici che legano relazionalmente le comunità, sviluppando gli anticorpi naturali all'inclusione come all'esclusione, esercitando quell'equilibrio tra il piccolo e il grande spazio che coniughi universalità e particolarità in una comune tensione armonizzatrice.

Il legame con un territorio, con un Luogo, è il primo passo per concretizzare il concetto di limite. Solo in tale prospettiva ci si sottrae alla logica del pensiero unico e ci si rende consapevoli dell'importanza di tornare ad essere abitanti della nostra terra, anziché cittadini virtuali e mercificati del mondo, titolari di astratti quanto impositivi diritti occidentali. Invece di "opporsi" alla globalizzazione, la strategia giusta è quella di prendere atto che così è, e di muoversi sul piano culturale, economico e sociale, per creare un bene comune per cui sia legittimo rappresentare gli interessi politici, eventualmente conflittuali, come tutti i "mezzi" rispetto ai "fini".

I fondamentalismi, la globalizzazione e il bene comune17

Gli avvenimenti che si accavallano a partire dall'11 settembre scorso sono di tale portata e commento pubblico, che non ci sembra opportuno sovrapporci. Riteniamo invece necessario aggiungere una appendice al nostro scritto precedente "La politica e la globalizzazione". In quella sede avevamo sostenuto l'inutilizzabilità delle categorie amico/nemico per costruire una credibile critica al processo di globalizzazione in atto. Ebbene, dall'11 settembre risulta ancora più nitido come la presunta neutralità dello strumento politico, raffigurato per riduzionistici schieramenti agonali, sia impossibilitante a qualsiasi riflessione teorica e pratica che si ponga in termini critici del modello di sviluppo dominante e del modello socioculturale occidentale. Lascio agli storici la fondatezza della mia persuasione, ma ho la netta impressione, che mai si sia raggiunta una tale identificazione e omogeneizzazione delle opinioni pubbliche delle nazioni industrializzate sulla autoreferenzialità e, quindi, "superiorità" civilizzatrice. Ora, dato che, coscientemente o incoscientemente, questa propensione eccita quella altrui, in particolar modo, quella islamica, anch'essa convinta, in modo più o meno esplicito, della propria "unicità" e "superiorità", siamo di fronte alla impossibilità di porre una alternativa politica e culturale politeistica, relativizzante, che intenda i rapporti internazionali come ambito di confronto differenzialistico e identitario.

Anche nell'asfittico ambito nostrano la logica conflittuale tra destra e sinistra ha raggiunto un livello di tale automatismo, che sgomenta l'assenza di riflessione e sostanza che caratterizza entrambe gli schieramenti. Alle destre non par vero di poter celebrare in un'orgia di demagogia patriottica (altrui) un decisionismo aziendalista dell'"armiamoci e partite", con risvolti interni di xenofobia ed esterni di "sacro egoismo", inquietanti. A sinistra, si cortocircuita tra diritti universali e crisi della convivenza multietnica, l'internazionalismo impatta con le culture altre, che sono "buone" solo se desiderano le "magnifiche sorti e progressive" della loro autodistruzione, altrimenti meglio bombardare. Gli opposti schieramenti rispecchiano la dialettica liberal-capitalista, con un gioco alternato di freno e acceleratore nella rappresentanza sociale di un individualismo mutante nella referenza d'interesse, ma risoluto nell'allargare la sfera dei bisogni sensistici e, quindi, dell'acefala società consumistica che li supporta.

Oggi, chi vive all'interno della società in posizione subalterna, si sente normalmente di "sinistra". Chi dallo status quo trae vantaggio, si sente di "destra". Alcuni, che per posizione sociale dovrebbero essere di "destra", al contrario, cercano di attenuare gli elementi di diseguaglianza e sfruttamento, e con ciò si ritengono di "sinistra". Chi è di sinistra ritiene che a destra stiano i "cattivi". Chi è di destra considera "buonisti" e ipocriti quelli di sinistra. In realtà questi due modi di sentire, di agire e di votare appartengono entrambi di fatto e di diritto alla megamacchina liberal-capitalista, che utilizza questa contrapposizione per gestire le proprie diverse fasi. Se alle popolazioni vengono richiesti dei sacrifici, saranno le "sinistre" a gestire le istituzioni politiche, dato il potere di controllo storicamente acquisito sulle fasce di popolazione più deboli, tramite i sindacati, l'associazionismo ecc. Appena il sistema produttivo sarà pronto per una nuova fase espansiva, torneranno al governo le "destre".

Destra e sinistra sono subalterne al processo di globalizzazione. Dobbiamo quindi domandarci se questa falsa contrapposizione politica e culturale possa anche solo provare a confrontarsi con le cause che generano gli effetti tragici di questi giorni. La globalizzazione porta insito in sé un fattore compulsivo: non rendersene conto non può che esacerbare la polarizzazione della comunità internazionale ed alimentare i fondamentalismi e gli estremismi, d'oriente e d'occidente, incapaci di confrontarsi con le cause del degrado.

La globalizzazione assorbe nel mercato i meno abbienti, ma inserendoli nella perversa morsa della scarsità/bisogno, immola nello "sviluppo" i modelli sociali e culturali comunitari che consentivano il sostentamento, sobrio, ma dignitoso, di intere popolazioni, immuni dai conflitti distruttivi importati dal prometeismo occidentale. Il lavoro "globalizzato" significa precarizzazione generalizzata, milioni di persone sradicate dalle loro terre ancestrali per far spazio all'industria agroalimentare d'esportazione, che deforesta in loco e consente irrisori pagamenti degli interessi su debiti accumulati con la Banca Mondiale per perseguire modelli economici forzati quanto corruttori. La concentrazione sempre più paradossale di gente senza ruolo e lavoro in aree urbane ambientalmente insostenibili, foriere di forme patologiche di disadattamento e regressione psicologica. Gli ambienti naturali devastati, inquinati, alterati negli equilibri omeostatici più profondi, prodotti da millenni di evoluzione creatrice del vivente.

Le statistiche sono spesso asettiche e di difficile partecipazione emotiva per chi conduce un'esistenza "privilegiata" --ma sempre più insulsa e frenetica-- nei paesi sviluppati, che animano la megamacchina liberal-capitalista planetaria. Basti pensare che oggi il patrimonio totale dei 356 individui più ricchi del mondo supera il reddito annuo complessivo del 40 per cento dell'umanità. L'80 per cento delle risorse planetarie sono consumate dal 20 per cento dell'umanità, immaginiamoci cosa significherà per la compatibilità ecologica e sociale l'allargamento dei bisogni di consumo. Mentre si evoca taumaturgicamente la new economy e le virtù taumaturgiche delle telecomunicazioni, il 60 per cento della popolazione mondiale non ha mai fatto una telefonata in vita sua, un terzo non conosce l'uso dell'elettricità. Un miliardo di persone non ha occupazione, 850 milioni sono malnutrite e centinaia di milioni non hanno l'acqua potabile. Metà della popolazione mondiale è completamente esclusa dall'economia ufficiale. Prima dello sviluppo neocoloniale questo significava autosufficienza economica integrata nel territorio, ora è sinonimo di sussistenza e irreversibile degrado ambientale e socioculturale. Tutto ciò significa sradicamento e fenomeni imponenti di migrazione che non possono che squilibrare qualsiasi ipotesi politica di autogoverno endogeno e governo allogeno dei flussi, a detrimento universale (questo si) della dignità umana.

Intere fasce di umanità sono consapevoli che la loro storia, unica e irripetibile, e i valori della loro comunità sono schiacciati dalle società multinazionali. Si rendono conto che questo mondo sempre più fatto di artificio, di produzione culturale, marchi, e stili di vita aziendali ed edonistici sta perdendo senso e compatibilità sociale. Temono, a giusto titolo, che venga loro imposto uno stile di vita alienante, una omogeneizzazione globale dell'azione e del pensiero. Hanno paura che, in questo nuovo mondo, l'essenza stessa della loro identità si possa irrimediabilmente dissolvere in nome del business generale ed individuale.

Contro tutti i fondamentalismi, in oriente e in occidente, al nord come nel sud del mondo, che animano per azione e reazione la globalizzazione, su una dialettica meccanica tra destra e sinistra, chi ha il sentimento alto di immaginare un bene comune condivisibile, comunitario e partecipativo, non può che pensare ed agire localmente a partire da tre semplici constatazioni. Il valore della comunità: il riconoscimento della necessità per ognuno di noi di avere rapporti diretti, empatici, basati sulla conoscenza, sulla comunanza culturale invece che sul calcolo e sull'interesse. Il valore della vita: la consapevolezza che il vivente ha un senso, un'intelligenza, una consapevolezza sacrale di cui siamo parte. Il valore della Natura, che è viva, animata, condivide sofferenze e gioie, ed a sua volta non può essere considerata merce, risorsa, pattumiera.

L'uomo, parte di una comunità cosmogonica, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda. La consapevolezza di ciò ha permesso alle società vernacolari di sopravvivere per decine di migliaia d'anni, rinnovandosi e prestando attenzione a non superare i limiti naturali, "ecologici", si direbbe oggi. Oltre questi limiti vi è solo l'impazzimento virale di un conflitto d'interessi interno al nichilismo della tarda modernità.

 


Note

1- «I. Illich, Nello specchio del passato, Red, Como 1999 torna al testo ^

2- Vedi a tal proposito A. de Benoist, Gli esiti nefasti della globalizzazione e i modi per contrastarla in "Trasgressioni", n. 22, Firenze, maggio-agosto 1996. torna al testo ^

3- M. Revelli, Oltre il novecento, Einaudi, Torino, 2001. torna al testo ^

4- F. Cassano, Modernizzare stanca, Il Mulino, Bologna, 2001. torna al testo ^

5- A. Campi, Il ritorno (necessario) della politica in "Ideazione", n. 3, maggio-giugno 2001, Roma. torna al testo ^

6- C. Preve, Per una credibile identità nazionalitaria italiana, in "Indipendenza", n. 10 aprile-luglio 2001, Roma. torna al testo ^

7- Vedi di T. Negri, Impero, in uscita per Garzanti, Milano 2001. torna al testo ^

8- Vedi a tal proposito l'esaustivo articolo di A. Castronuovo, Le metamorfosi del katechon, in "Trasgressioni", n.27, Firenze, gennaio-aprile 1999. torna al testo ^

9- Vedi M. Cacciari, Duemilauno. Politica e futuro, Feltrinelli, Milano, 2001; e il Documento per un nuovo federalismo da lui ispirato (in "Trasgressioni", n. 26, maggio-agosto 1998, Firenze). torna al testo ^

10- U. Garimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999. torna al testo ^

11- E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano, 1993 torna al testo ^

12- Vedi di F. capra, Il Tao della Fisica, Adelphi, Milano, 1984 e La rete della vita, Rizzoli, Milano, 1998. Di prossima pubblicazione: A. Sacchetti, Scienza e coscienza. L'armonia del vivente, Arianna editrice, Casalecchio, 2001  torna al testo ^

13- Vedi a tal proposito l'interpretazione ciclica del sociologo russo P. Sorokin, La crisi del nostro tempo, Arianna, Casalecchio, 2000 torna al testo ^

14- Serge Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino, 1995 torna al testo ^

15- Vedi a tal proposito di A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000 torna al testo ^

16- Vedi di E. Goldsmith-J. Mander, Glocalismo. L'alternativa strategica alla globalizzazione, Arianna, Casalecchio, 1999 torna al testo ^

17- [n.d.r. Questa seconda parte è stata aggiunta dall'autore in seguito agli eventi dell'11 settembre 2001. La prima parte risaliva a qualche giorno addietro.] torna al testo ^

 

Eduardo Zarelli

 

 

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Articolo inserito in data: martedì, 12 febbraio 2002.

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