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Mariano Bizzarri, Quel gene di troppo

Frontiera Editore, Milano 2001, pp. 168, L. 25.000

di Giovanni Monastra

L'idea di trarre dalla natura molteplici benefici per l'uomo è, chiaramente, molto antica (se ne hanno prove già nella società egizia), ma nel corso della storia si è espressa in modi spesso assai diversi. Sintetizzando, e con tutti i limiti delle schematizzazioni, si potrebbe affermare che esistono due forme fondamentali per l'uomo di rapportarsi con la natura, anche se di fatto la nostra storia ci ha fornito numerosi esempi costituiti da posizioni intermedie, ove i vari elementi si miscelano in molteplici modi.

La prima, prevalente nel passato, ma oggi in ripresa, consiste in un approccio empatico ed olistico, cioè un approccio che percepisce e "sente" la realtà vivente come un tutto nel quale le singole parti, dal livello microscopico a quello in cui ci situiamo noi fino ad arrivare ai macrosistemi, hanno sì la loro autonomia (e in primis ciò vale per l'uomo, la cui libertà è fuori discussione), ma tale autonomia non equivale a negare le profonde interrelazioni che esistono fra le parti. Questo modo di agire trae i suoi fondamenti dalla concezione della natura come grande forza misteriosa (sacra, per le culture premoderne), vivente unità armonica, ordinata e complessa, posta in un delicato equilibrio da non infrangere, anzi da rispettare, per cui è importante non superare certi "limiti" (tabù). La natura viene vista come una realtà, almeno in potenza, "perfetta", madre e maestra (prima che questo ruolo "istruttivo" venisse attribuito alla storia!), cioè come il migliore dei mondi possibili nel nostro livello di esistenza. Ciò non escludeva, certo, la possibilità di renderla più "amica" dell'uomo attraverso interventi adeguati, ma questo tipo di agire andava inserito in un contesto di finitezza che impediva di formulare utopiche trasformazioni radicali e senza limiti del mondo vivente: si potevano sviluppare le "potenzialità" della natura, ma sempre seguendo i suoi ritmi e le sue leggi, mai infrangendole. È la natura stessa a indicare le strada da percorrere.

La seconda forma, tipica, ma non esclusiva, della modernità, invece concepisce la natura come un ammasso senza vita di oggetti materiali, una landa desacralizzata quasi nemica, che l'uomo non vede più come luogo di "manifestazioni di poteri elementari" con cui interagire, secondo le parole di J. Ortega y Gasset, ma come realtà a sé, indipendente dal mondo spirituale di chi la conosce (dualismo radicale). Metaforicamente non è più la madre da rispettare, ma la matrigna da violentare per estorcerle tutti i segreti. La natura equivale a una somma di pezzi manipolabili e ricomponibili a piacere, senza un ordine complessivo a priori che la regga e la regoli nella sua interezza e nelle sue parti. Un mondo soggetto al "caso" e alla "necessità" che è così, ma sarebbe potuto essere altrimenti, anche in modo del tutto diverso. Nessuna logica superiore, nessuna armonia intrinseca lo sostiene e lo guida. Viene ridotto a pura meccanica atomica (troviamo i primi riferimenti di siffatto modo di pensare in un filosofo dell'antichità, ma molto "moderno", Democrito).
Tale concezione è l'incubatrice di ogni sogno teso alla radicale riformulazione del vivente, alla sua creazione quasi ex-novo, ritenendo del tutto imperfetta, anzi fondamentalmente sbagliata, la sua versione attuale. Il mondo diviene un enorme laboratorio, un campo di sperimentazione senza limiti, salvo quelli tecnici, dove realizzare, cioè appagare, tutti i sogni di potenza, felicità e benessere dell'uomo avvitato e risucchiato nel suo miope edonismo consumista, che gli impedisce perfino di capire che sta assumendo progressivamente il ruolo di cavia. È un sogno faustiano, però molto spesso privo, nella percezione dei soggetti che lo nutrono, di ogni "tragicità": fatto su misura, cioè, per il borghese ansioso di accrescere a dismisura il suo benessere e incurante del resto.

Ebbene oggi l'ingegneria genetica, che prefigura un mondo utopico di nuove chimere, costituisce la versione più attuale di questo progetto nutrito di materialismo creazionista e di artificialismo prometeico banalizzato. In pratica si ritiene auspicabile sostituire ciò che è naturale con ciò che viene prodotto dall'uomo con la sua arrogante e potente tecnologia, in modo da insegnare (finalmente!) alla natura come "dovrebbe essere", proprio a quella natura da cui, secondo alcuni, dovremmo "emanciparci" del tutto. Questa mentalità e queste aspirazioni, anche se hanno una base nel sentire spontaneo di molti, sono state certamente indotte attraverso una sapiente "propaganda" ai limiti del lavaggio del cervello.
La miscela diviene ancor più dirompente e pericolosa nel momento in cui tali "bisogni" (sic!) si esprimono in un contesto sociale dominato dall'economia come realtà ormai autonoma e ipertrofica (economicismo). In un mondo soggiogato dal profitto l'utilitarismo diviene la regola dell'agire di massa, cosicché risulta molto difficile far emergere il vero volto delle strategie messe in atto dalla megaindustria, preoccupata solo, nella sua frenesia attivistica, di accrescere a dismisura i profitti: infatti non esiste più una vera differenza qualitativa tra l'etica sociale e quella imprenditoriale-mercantile, che oggi, per essere maggiormente accetta al consumatore (sempre meno persona e sempre più fruitore di beni e servizi), si ammanta di messianismo e profetismo scientistico e tecnocratico.

Naturalmente questa situazione si esprime paradigmaticamente, e in modo esasperato, negli U.S.A., paese pilota e guida del progetto di "modernizzazione" planetaria nei termini di omologazione e livellamento su un solo standard. Altrove esistono delle sacche di resistenza, anche consistenti, e l'Europa si situa in parte tra queste, perché, almeno a livello residuale, possiede un retroterra culturale di spessore, "profondo", che entra in conflitto con la grossolanità superficiale dei fautori del mercato, spacciato come impersonale divinità regolatrice.
In tale situazione assume una importanza enorme ogni sforzo serio di fornire a un cittadino perplesso e disorientato, talora anche molto sospettoso, gli strumenti per capire e per "formarsi" in modo organico e articolato. Il libro sull'ingegneria genetica di Mariano Bizzarri si inserisce in questo filone positivo di interventi volti a "risvegliare" attenzioni e sensibilità a rischio di scomparire o sopite (si spera temporaneamente). Il suo sforzo, per fortuna, è ben lungi dall'essere solitario. Infatti anche altri studiosi di prestigio, di varie discipline, preoccupati per il futuro dell'uomo hanno espresso perplessità e critiche su questa materia: biologi come Joe Cummins, Brian Goodwin, Mae-Wan Ho, Gilles-Éric Séralini, informatici come l'inventore del linguaggio Java Bill Joy, epistemologi come Ervin Laszlo o filosofi come Jeremy Rifkin, solo per citarne alcuni.

L'Autore è docente di Biochimica presso l'Università La Sapienza di Roma e di Oncologia presso l'Università LUDES di Lugano, quindi è un esperto sul tema degli organismi geneticamente modificati (OGM), anche per quel che riguarda le ricadute sulla salute umana. Ha scritto vari libri, tra cui La mente e il cancro (Frontiere Editore 1999) sul rapporto psiche-tumori, che ha riscosso un lusinghiero successo. Bizzarri, in Quel gene di troppo, offre un quadro completo e oggettivo dell'argomento, senza allarmismi o fanatismi, ma al contempo del tutto alieno da ogni connivenza o acquiescenza verso il moderno mito bioingegneristico. Egli non parte da ideologismi aprioristici e dogmatici, ma dalla analisi dei fatti che inquadra in una cornice valoriale di tipo antiutilitaristico.

Gli interessi economici di fronte ai quali ci si trova sono enormi, di una potenza inaudita. Per limitarci al business sulle piante transgeniche, ricordiamo che si basa su un giro di affari annuo di circa 50 miliardi di dollari, con il 50% dei brevetti in mano americana e l'80% delle aziende biotecnologiche localizzate negli USA, anche se il discorsosi fa più ampio considerando che i soggetti principali sono multinazionali del calibro di Monsanto, Novartis, Aventis.
L'Autore sostiene giustamente che l'impiego dell'ingegneria genetica in campo alimentare ha già dato luogo ad un numero sufficiente di eventi negativi tali da far ripensare molto criticamente tutto il fenomeno, mettendo in primo luogo in discussione le stesse promesse, sbandierate in questi anni, di un futuro radioso per l'umanità. Anche la bioingegneria che si sta sviluppando in campo biomedico, a parere di Bizzarri, presenta più lati oscuri e pericolosi che positivi. In particolare egli sottolinea che l'uso degli OGM in campo alimentare si basa sulla creazione, da parte di una martellante propaganda, di "falsi bisogni" in campo nutrizionale.
I fautori delle manipolazioni genetiche vogliono farci credere che i risultati delle loro ricerche, "migliorando" (sic!) le caratteristiche biologiche di una pianta o di un animale, forniranno un sicuro vantaggio economico per agricoltori e consumatori, salveranno l'ambiente, offriranno nuovi mezzi terapeutici (ad esempio vaccini negli alimenti) per la salute dell'uomo e anche saranno in grado di risolvere il problema della fame nei paesi del Terzo Mondo. Ma l'esperienza accumulata, sottolinea l'Autore, smentisce queste promesse, dimostrandone l'illusorietà. La stessa pretesa di considerare a priori innocui quegli OGM considerati "sostanzialmente equivalenti" agli organismi naturali, per farli commercializzare al più presto, senza troppi controlli e verifiche, si è dimostrata una grossolana menzogna strumentale.

Quanto già sappiamo deve indurci a non continuare sulla strada indicata dai bioingegneri, dando credito alla validità di prodotti inutili e spesso anche dannosi, funzionali solo agli interessi delle multinazionali. Il pericolo può rivelarsi grave perché, come ricorda Bizzarri, "nel caso delle modifiche introdotte con l'ingegneria genetica, indietro non si torna. E nessuno può assicurarci che, in qualche modo, si recupererà l'equilibrio perduto".
Nel libro troviamo un interessante elenco di tutti gli insuccessi già collezionati dalle biotecnologie in campo economico, ambientale, sanitario, alimentare. Accanto a questi insuccessi l'Autore ricorda pure i danni che talora ne sono derivati e che qualcuno vorrebbe occultare, cancellare. Si va dalle patologie, anche mortali, provocate dagli OGM, alla induzione di nuove varietà di insetti resistenti agli antiparassitari rilasciati dalla piante transgeniche, dai rilevanti costi aggiuntivi sostenuti dagli agricoltori convertiti al biotecnologico, alle gravi perturbazioni dell'equilibrio climatico e all'inquinamento genetico che aggrava il preoccupante fenomeno della diminuzione di biodiversità, già insidiata dalla frammentazione degli habitat e dalla diffusioni di agenti chimici inquinanti.

Le stesse concezioni della genetica su cui si fonda il castello bioingegneristico si sono dimostrate errate. Esse si basano sul paradigma meccanicista e determinista e postulano nella cellula l'esistenza di un flusso lineare e unidirezionale dal singolo gene alla relativa proteina codificata, e quindi al carattere fenotipico derivante, in un contesto relativamente poco influente. Ma gli studi di genetica di questi ultimi dieci-quindici anni hanno dimostrato che la realtà cellulare è molto più complessa, dinamica e interattiva.
Vediamo brevemente alcuni aspetti. In primo luogo va ricordato che un OGM è un organismo (pianta, animale, batterio) nel cui genoma sono stati inseriti "stabilmente" (diventando, quindi, ereditabili nelle generazioni successive) uno o più geni estranei. In altre parole vengono trasferiti segmenti di DNA appartenenti ad organismi sia della stessa specie del ricevente, sia di specie diverse, anche molto lontane filogeneticamente (es.: da un animale a una pianta). L'esperienza ci dice che il secondo tipo di sperimentazione si verifica con prevalenza assoluta: biologicamente si caratterizza per il fatto che infrange le barriere della specie, evento mai avvenuto in passato in campo agricolo o zootecnico (non si tratta affatto di una estensione della pratica come nell'incrocio!). Ma l'introduzione, per altro casuale, di DNA esogeno in un altro genoma può dar luogo a effetti del tutto differenti, e quasi sempre dannosi, da quelli attesi, in particolare nel caso di commistioni tra patrimoni genetici provenienti da organismi strutturalmente e fisiologicamente molto lontani.
Così puntualizza Bizzarri: "I geni di qualunque specie funzionano in rapporto a una complessa regia, immersi in una rete coerente di interazioni con l'ambiente circostante. Nessun gene funziona isolatamente e, ciò che più importa sottolineare, nessun gene determina di per sé i caratteri del fenotipo in maniera lineare e diretta. La riprova sta proprio nel fatto che, in termini di geni, le differenze che intercorrono tra un uomo e un topo sono inferiori al 2%".
La cellula è organizzata come un "tutto", cioè costituisce una realtà olistica secondo la genetica più recente. Quindi il DNA introdotto non "lavora" come una entità a se stante, ma come una parte condizionata dalla totalità cellulare, per cui anche può produrre, o contribuire a produrre, proteine differenti: ecco perché nel nuovo contesto è possibile che si manifestino risultati imprevisti e dannosi. Così il transgene, cioè il gene inserito, si connota come una nota sbagliata all'interno di una melodia.

Passando all'ingegneria genetica applicata in campo zoologico, Bizzarri invita tutti noi ad avere più rispetto per tanti esseri succubi dei nostri capricci "scientifici": gli esperimenti volti a creare animali transgenici, anch'essi spesso inutili come le piante geneticamente modificate, derivano dalla scarsa attenzione "rivolta alla sofferenza animale e alla degradazione delle specie perseguita cinicamente dall'industria biotecnologica per intenti quasi sempre ispirati a logiche che con la conoscenza e il miglioramento della condizione umana non hanno nulla a che fare".
Molte sperimentazioni in questo settore si connotano come qualcosa di luciferino, oltre che crudele verso altri esseri viventi. Ci sono stati numerosi esempi di animali affetti da gravi e dolorose malformazioni, che alla fine li hanno portati alla morte, come nel caso di quei topi geneticamente modificati nei quali l'atrio destro del cuore è cresciuto cento volte di più di quello sinistro, invadendo quasi completamente le cavità interne del corpo, una situazione che gli sperimentatori non avevano affatto previsto.
Commenta Bizzarri: "L'episodio illustra bene la complessità di interazioni a cui soggiace un gene, che di per sé non specifica proprio niente al di fuori del contesto originario in cui la sua funzione acquisisce un ruolo e una coerenza. E chiarisce come l'inserzione di un segmento di DNA non solo non assicura nessun risultato, ma espone a conseguenze spesso drammatiche e comunque imprevedibili".

Toccando, poi, uno dei tasti più usati e abusati dalla propaganda delle multinazionali del biotech, vorremmo rilevare che gli OGM non forniranno la soluzione per sconfiggere la fame nel mondo. Infatti molti popoli sono denutriti non per carenza di cibo, a causa della desertificazione o salinificazione dei suoli (ed ecco la creazione di piante transgeniche "adattate" a quegli ambienti difficili!), ma per l'impossibilità economica di acquistarlo o produrlo.
Inoltre, dati gli eccessi nella resa agricola esistenti in occidente, l'introduzione delle colture transgeniche nei nostri paesi sarebbe un assurdo clamoroso, ammesso che da esse si possano ottenere raccolti più consistenti. Infatti, se le promesse fossero realizzate, molti agricoltori verrebbero rovinati dal crollo generalizzato dei prezzi. Un altro elemento che permette di cogliere la vera natura predatoria dell'industria degli OGM riguarda l'appropriazione dei semi "manipolati", capitolo del più ampio problema riguardante l'indecente e rapace brevettazione del vivente, stigmatizzata con forza da Bizzarri. Con tale processo, basato sulla tecnologia cosiddetta "terminator" che rende le piante transgeniche sterili, le multinazionali produttrici di OGM si stanno arrogando il diritto di segregare le sementi, diventandone proprietari esclusivi, in modo da costringere tutti gli agricoltori a comprarle annualmente da loro. Un meraviglioso esempio da manuale di strozzinaggio nei confronti di una intera categoria economica!

Ma l'ingegneria genetica spesso lede anche gli stessi diritti fondamentali di interi popoli: ad esempio, attraverso le pratiche di biopirateria nei confronti del Terzo Mondo, spogliato ogni giorno di più dei suoi saperi e delle sue conoscenze tradizionali in campo sanitario e alimentare da parte di un potere industriale che se ne appropria gratuitamente, o quasi, per poi rivenderle a caro prezzo. Molte altre sarebbero le cose da aggiungere, ma lasciamo al lettore l'approfondimento di queste tematiche nel testo di Bizzarri.
Da ultimo, per evitare malintesi, ci sembra opportuno sottolineare che l'Autore non vuole certo osteggiare la ricerca scientifica più avanzata e sofisticata o le biotecnologie come fenomeno complessivo, ma combattere la loro formulazione e realizzazione in chiave irresponsabilmente manipolativa, frutto di una concezione riduzionista e meccanicista, oltre che mercantile, della natura e degli organismi. Dal suo discorso, estremamente chiaro, tutti dovrebbero trarre un forte impulso per bloccare il dilagare, senza controllo e senza alcuna selezione, delle biotecnologie nella vita di ogni giorno. A nostro parere una società civile viva non può che essere attenta e attiva, quindi non deve mai farsi sedurre dalla tentazione suicida di delegare ogni scelta al solo potere politico.

 

Giovanni Monastra

 

 

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Articolo inserito in data: martedì, 12 febbraio 2002.

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